mercoledì 28 dicembre 2016

27 #UNIMMAGINEDICEPIUDIMILLEPAROLE


OltreConfine - Era novembre quando sono entrato nel Palazzo della Ragione per visitare questa mostra, dove le immagini davano voce a chi voce non ha. Immagini potenti e dirette a raccontare il nostro tempo, il nostro mondo. Ogni scatto una storia, che è anche la nostra storia, in cui contraddizioni e umanità si intrecciano. Storie di disperazione e di speranza che ci riguardano e a cui non possiamo sottrarci, con cui dobbiamo fare i conti, perché ci siamo immersi. Così stava scritto sulla cartolina “Un racconto visivo e una presa di coscienza per parlare di migranti, dei loro viaggi …” E mentre osservavo, l’immagine del confine geografico, che avevo nella mia mente, lentamente lasciava spazio alla percezione di un confine più intimo, il confine tra me e l’altro. Il confine non è più frontiera ed elemento di divisione ma qualcosa di permeabile: una superficie di contatto tra due persone che si possono conoscere, tra due mondi che si possono parlare. Forse ripensando al confine in questi termini si potrebbero scardinare pregiudizi e paure. E se il confine diventa elemento di vicinanza e non di chiusura, con conoscenza e coscienza si potrebbe iniziare a percorrere una nuova strada per costruire risposte civili ed umane. Rifletto e cammino sotto l’alto soffitto del Palazzo della Ragione e più volte passo davanti alle singole immagini ed ogni volta mi soffermo davanti a questo grande pannello. Sono attratto dallo sguardo magnetico di questo bimbo, incorniciato nell’abbraccio della madre e nei mille riflessi argentei del telo termico, e penso alle Madonne con Bambino del nostro Rinascimento. Da quel giorno questo sguardo e questa immagine mi accompagnano. Da quel giorno continuo a chiedermi se ciò che faccio è sufficiente e cosa posso fare di più, per chi non ha voce.
#OltreConfine #Fotografica
Grazie ad Alessandro Penso per lo scatto che ancora oggi mi invita a riflettere e che ha fatto da copertina a Fotografica - Festival di Fotografia Bergamo

martedì 20 dicembre 2016

20 #PICCOLESTORIE


 LA NEVE A MILANO

“Anche nei nostri sogni nevica,
ma una sola volta nella vita.”
Orhan Pamuk


Volevo vedere la neve. L’ho cercata dietro casa, sulle alte cime: nei valloni dove al sole non è concesso entrare, nei canali e sulle cenge delle pareti nord. L’ho trovata nascosta nei luoghi d’ombra, ma ogni volta, giunto in vetta, non ho potuto immergere lo sguardo nel candore di un paesaggio fatto di neve e cielo. Ogni volta gli occhi correvano su distese di monti brulli e austeri, a perdita d’occhio. Creste e crinali a rincorrersi e intrecciarsi, affascinanti di certo ma senza la magia del morbido e candido mantello. Mentre l’attendo continuo la ricerca, tra i libri e le immagini, a volte la trovo nei luoghi più improbabili.
E chi l’avrebbe mai detto? Ho trovato la neve a Milano. In una fredda mattina di dicembre, se ne stava lì ad aspettarmi oltre la porta di una galleria d’arte; di rosso e di giallo i muri, ad incorniciare il piccolo accesso ad una promessa: “Anima Bianca”. Sono entrato. Caldo, ho tolto la giacca. Due sale, venticinque tele a parlare di neve. Se escludo Segantini, non conosco nessuno di questi pittori italiani dell’ottocento. Quindi mi metto in ascolto e scruto con attenzione, come avessi di fronte una grande parete, su cui identificare la linea di salita, o un pendio candido e vergine, sovraccarico di neve, dove scendere in sicurezza e lasciare la mia effimera traccia. Inizio col riconoscere alcuni luoghi, non tutti. Poi osservo con maggiore attenzione e, di fronte ad alcuni quadri, scatta qualcosa. Sento perfettamente. Il silenzio ed il gelo intenso che immobile cala con l’avvento della notte mentre le ultime luci del sole infiammano le alte creste. Il sibilare del fhon che ti investe e penetra sin dentro le ossa, mentre i larici si piegano e scricchiolano sotto la sua sferza. La magia dei fiocchi che cadono e vestono un grumo di case sulle rive di un lago. Il calore intenso che sa evocare la luce oltre la finestra di una baita persa nel candore di un paesaggio notturno. Assorto passo da una tela all’altra e mi soffermo. Il tempo scorre e non me ne accorgo. A volte mi pare di sentire le medesime emozioni provate quasi due secoli fa da quei pittori. I loro colori su quelle tele, come per magia, mi parlano di un candido incanto ed io li ascolto e mi meraviglio, come fossi lì al loro fianco, in quel preciso istante in cui hanno catturato l’anima della neve. Sembrerà assurdo ma lì in quelle due stanze mi sono immerso nella bellezza della neve come fossi tra i miei monti. Si, è successo: ho trovato la neve a Milano.

sabato 17 dicembre 2016

2 #APPUNTI - Prima che la neve

PRIMA CHE LA NEVE
Un lungo autunno
è trascorso
lento.
In cammino
tra boschi
e castelli di pietra,
a cercare
una strada
una storia.
Prima che la neve
strappi
l’ultima foglia
e copra di silenzio
i monti.

- domenica 24 dicembre 2006 - #appunti



L’altro giorno, dopo qualche tempo, incontro Marilisa. Ci salutiamo e subito mi dice: “Sai! Ti leggo sempre.” Inutile dire che mi ha fatto piacere e la ringrazio per il tempo che dedica ai miei neri. Poi aggiunge: “Ma la poesia? Dai, non dirmi che non ci hai mai provato.” E ci scambiamo alcune battute nel merito, ponendo l’attenzione sul piacere che dona la lettura ad alta voce, della poesia.
Ora eccomi qui. Stimolato dalle sue parole ho frugato tra i miei appunti per ripescare qualcosa che di una poesia abbia una parvenza. E qualcosa ho trovato, parole scritte negli anni, appunti presi per fissare un attimo o un’emozione. Li ho riletti e, come sempre quando rileggo le mie parole, qualcosa ho aggiunto, qualcosa ho tolto, qualcosa ho spostato e limato. Poi mi sono trovato tra le mani queste parole, scritte esattamente dieci anni fa, e mi ci sono ritrovato. Quindi mi sono detto: “Perché no!”.
Grazie Marilisa, che buono sia il cammino verso ogni anno che verrà.

1 #APPUNTI - Bacio di fuoco

Nell'ombra la luce

Irrompe

Un bacio di fuoco

- venerdì 9 dicembre 2016 -  #appunti


26 #UNIMMAGINEDICEPIUDIMILLEPAROLE


giovedì 15 ‎dicembre ‎2016, ‏‎07:24:52 - Pizzo del Becco – Lago di Sardegnana

Ancora qui / Ancora tu
Ora però, io so chi sei / Chi sempre sarai
E quando mi vedrai / Ricorderai
- Elisa Toffoli -



Ancora qui, su queste ripide scale che bordano la condotta forzata. Ancora qui, sotto questo zaino carico. Ancora qui, gradino dopo gradino, con il sudore che gocciola dalla fronte ed il respiro che si condensa nel fascio di luce della frontale. Ancora qui con la voglia di tornare tra le pieghe della montagna, per salire sin dove termina la terra e ha inizio il cielo. Dopo una settimana esatta ritorno, ancora qui, ad ascoltare il freddo silenzio dell’aurora. Una notte speciale sta volgendo al termine, una lunghissima notte di plenilunio. La scalinata perde forza e al suo termine compare la muraglia della diga di Sardegnana, la luce lunare la rischiara. Spengo la frontale e procedo inseguendo la mia ombra. Ben presto sono oltre la diga, oltre la casa dei guardiani ed inizio a costeggiare il lago, percorrendo i binari della vecchia decauville. Alla mia destra si compiono magici giochi di luce, riflessi e riverberi si rincorrono sulle superfici di ghiaccio che lasciano posto alle acque increspate. Ben presto, l’intero specchio sarà avvolto dal gelido abbraccio dell’inverno incipiente. Lei è alle mie spalle, la sua luce m’investe disegnando un’ombra lunga che mi indica il cammino. Ancora non mi volto, cammino e pregusto il momento in cui arriverò al termine del lago, là dove avrà inizio la salita del vallone. Procedo e alzo lo sguardo. I neri profili dei Corni di Sardegnana ritagliano un cielo profondo, leggermente discosta, sulla destra, oltre il dosso coronato di larici, sbuca la mole del Pizzo del Becco. È giunto il momento, mi volto, la vedo, lei è lì: perfetta. Impercettibilmente si abbassa sull’orizzonte, spande la luce tutta attorno, lo specchio d’acqua restituisce un caleidoscopio di riflessi che posso solo trattenere con lo sguardo nell’impossibilità di descriverli. Mi fermo un attimo e godo di tanta meraviglia, riaffiorano infiniti ricordi di tutte le notti di luna piena passate tra i monti. Lo sguardo è calamitato da questo spettacolo, riprendo il cammino osservando il disco lunare. Sorrido pensando a come, ancora oggi, l’emozione e lo stupore mi travolgano senza trovare alcuna barriera, lasciandomi senza fiato. Io salgo e inizio a pestare la neve, lei scende nascondendosi tra i larici spogli che orlano il crinale. Il tempo scorre e debbo lasciarla andare oltre l’orizzonte. La saluto, come potesse sentirmi, dandole appuntamento … a presto.

domenica 11 dicembre 2016

25 #UNIMMAGINEDICEPIUDIMILLEPAROLE

sabato ‎3 ‎dicembre ‎2016, ‏‎12:44:18 - Pizzo Redorta (3038m) – Canale Tua

“Ti do me stessa,
le mie notti insonni,
i lunghi sorsi
di cielo e stelle - bevuti
sulle montagne,
la brezza dei mari percorsi
verso albe remote.”

Antonia Pozzi - Bellezza -


Arabeschi candidi ad ornare rocce nere. Ricami effimeri a decorare creste e crinali. Una coltre bianca si è adagiata su questo corpo di pietra. Cammino e mi guardo attorno. Arrampico e mi guardo attorno. Riposo e mi guardo attorno. Le ore, i minuti e i secondi scorrono. Lei è lì, che io lo voglia o no. Lei è lì, che io la sappia cogliere o meno. Poi ci sono attimi che la intravedo e provo ad afferrarla, ma lei mi sfugge. Infine ci sono istanti in cui lei si manifesta con forza e mi colpisce, lasciandomi stordito, senza fiato. Non posso che fermarmi e restare a bocca aperta, nel tentativo di trattenere l’equilibrio perfetto tra le forme, la luce, i colori, il suono, il profumo e il calore di ciò che lo sguardo e i sensi tutti hanno catturato. Forse me ne scorderò o forse quell’amalgama si cristallizzerà in un ricordo duraturo. Per ora, stupito, mi godo – a lunghi sorsi - la bellezza di questo mondo sospeso. A volte sfilo la fotocamera dalla tasca, nel tentativo presuntuoso di fermarla in uno scatto Ogni volta fatico a staccarmi da quella magia e, quando riprendo il cammino, non posso non chiedermi: “Chissà se ne facciamo parte, e in che misura, di tanta bellezza.”

24 #UNIMMAGINEDICEPIUDIMILLEPAROLE


sabato 11 ‎novembre ‎2016, ‏‎12:08:14 – Valbondione - Pinnacolo di Maslana – Via “Syrinx”

Dieci giorni sono passati dalla nostra ultima visita. Anche oggi il cielo è perfetto, limpido. Ma oggi un vento gelido soffia da nord. Impetuoso ha strapazzato i faggi, rubando loro sino all’ultima foglia. Inarrestabile ha ramazzato l’aria da ogni impurità, rendendola tersa e luminosa. Impietoso sottrae calore ai nostri corpi. Alla base del Pinnacolo ci cambiamo velocemente. Tolti gli abiti sudati, ci infiliamo ogni indumento asciutto che abbiamo nello zaino: pantaloni lunghi, maglia a maniche corte, quella a maniche lunghe, pile, giacca leggera, infine giacca antivento e sotto il casco ci teniamo pure la berretta. Siamo buffi, vestiti come dovessimo affrontare una nord d’inverno. La settimana scorsa erano stati sufficienti un paio di pantaloncini e una maglia. Oggi è il vento che la fa da padrone ed il sole non vuole arrivare per portarci sollievo. Indugiamo oltre un’ora, aspettando che la luce coli dall’alto a riscaldare le placconate basali e il grottino da dove ha inizio la scalata. Eccola, arriva. Il vento non cessa ma la scura roccia del Pinnacolo ben presto accumula calore e non appena la tocco, lo restituisce alle mie mani intirizzite. Inizio a scalare e mi sembra di essere un pezzo di legno, insicuro e impacciato affronto la prima lunghezza. La roccia generosa restituisce calore e le mani riconoscenti lentamente si scaldano: i piccoli piaceri dell’arrampicata. Anche oggi siamo soli sulla montagna e anche questo mi piace: essere soli. Mentre saliamo e ci allontaniamo da terra, il vento continua a strapazzarci. Ci giochiamo, con il vento, anche grazie a lui questa giornata è unica. In sosta ci appiattiamo contro la parete per proteggerci e cogliere anche il minimo tepore che la montagna ci dona. Più volte mi ritrovo ad osservare assorto in lontananza, cercando quell’anfiteatro tra luce ed ombra, affacciato sulla valle. Lo trovo, scruto con attenzione lo spettacolo degli arabeschi di ghiaccio che hanno iniziato a formarsi alle quote più alte, sulle muraglie nere di Howl. Sono passati quattro anni da quando facemmo visita a quel luogo incredibile. Spero che il vento continui a soffiare freddo e gelido, foriero di un inverno in cui effimere cattedrali e fortezze di ghiaccio si formino e fioriscano ad impreziosire i nostri monti. Un richiamo mi giunge dall’alto. Cardu, il Re, è alle prese con il passaggio chiave della via. Lo osservo e seguo ogni suo movimento con attenzione, mentre me ne resto appollaiato sul terrazzino della sosta, ben accovacciato contro la parete. Ora lo sguardo è fisso su di lui mentre i pensieri volteggiano tra le raffiche di vento, rincorrendo i desideri e attendendo il momento per riprendere a scalare.

venerdì 9 dicembre 2016

19 #PICCOLESTORIE

LA BELLEZZA DEL MONDO, DELLE COSE E DELLE PERSONE
Sono le quattro e mezza del pomeriggio e, dopo oltre dieci ore di non stop, ti ritrovi sul nastro d’asfalto di fondovalle, a Fiumenero. I piedi, costretti negli scarponi, implorano pietà, oggi più che mai hanno fatto il loro dovere, senza tregua. Ti hanno portato sino nella Conca dei Giganti e poi, sulla punta dei ramponi, ti hanno spinto verso l’alto, lungo quel budello di neve e ghiaccio, conducendoti a calcare il Pizzo Redorta, la seconda vetta più alta delle tue montagne. Si sono quindi sorbiti la lunga discesa e ora sarebbe giusto ringraziarli e rendergli merito, liberandoli da quella gabbia.

Ma per rientrare a Valbondione devi percorrere oltre quattro chilometri di strada. Ti incammini lentamente, inizia ad imbrunire. Nessuna auto transita a quell’ora nella tua direzione. Ad un tratto senti sopraggiungere il suono di un motore. Eccola! L’auto sbuca dalla strettoia tra le case e ti viene incontro, i fari sono accesi. Metti fuori il dito. Chissà a cosa pensa l’autista nel vedere quella sagoma a bordo strada, con uno zaino carico in spalla e gli scarponi ai piedi. Purtroppo non ti è dato saperlo, nemmeno rallenta, nemmeno ti guarda e schizza oltre. Sconsolato ti guardi attorno. Mentre ti incammini ti chiedi: ma cosa gli costava darti un passaggio, aveva pure l’auto vuota; è evidente che sei un alpinista, forse un poco bislacco ma non pericoloso; poi siamo a Fiumenero e non sulla Dalmine-Villa d’Almè. Dopo poco altre due auto sbucano dalla strettoia. Stessi pensieri, medesimo gesto. Metti fuori il dito. La prima auto, pare una fotocopia di quella precedente, schizza oltre senza esitazione. Mannaggia a te. Perché la gente non si fida? Osservi fiduciosi la seconda auto. Non accelera, come han fatto le altre, rallenta, mette la freccia, accosta e si ferma esattamente di fianco a te. Sorridi mentre si abbassa il finestrino e i tuoi piedi stanno già esultando all’idea di non dovere percorrere quei quattro chilometri d’asfalto. Mentre ti chini e l’autista ti dice “Vado a Lizzola, dove vai?” i vostri sguardi si incrociano e vieni colto da una piacevole sorpresa. Lui è nerissimo, nella penombra dell’abitacolo risaltano il candore dei suoi denti e il bianco degli occhi. Il suo italiano è perfetto, segnato da quella cadenza tipica di chi proviene dall’Africa centrale. “Va benissimo! – rispondi – Vado a Valbondione, per recuperare l’auto”. Apri la portiera e nel salire ti senti in imbarazzo, sei sudato e sporco, lo zaino ingombra e fuori ci sono appesi ramponi, casco e picche. La sua auto è pulita e profumata, come la tua non è mai stata. Con attenzione sali e ti scusi per gli scarponi che lasceranno qualche segno sul tappetino. Ti tieni lo zaino sulle gambe facendo in modo che non si appoggi da nessuna parte. Incuriosito inizi a parlare e a fargli domande. Intuisci che lavora a Lizzola presso il centro di prima accoglienza per i profughi, quello gestito dalla Caritas, e così scopri un sacco di cose. Lui è affabile e senti che risponde e chiacchiera con piacere.  Il tuo provvidenziale angelo, ventiquattro anni fa, è arrivato dal Senegal e si è stabilito in valle Seriana dove abita e ha messo su famiglia. Ti parla dei suoi quattro figli, nerissimi come lui e italianissimi come te, nati e cresciuti in un paese della valle. Mentre ti descrive il suo lavoro, come operatore e mediatore culturale nei centri d’accoglienza, comprendi che ha le idee ben chiare sull’importanza di ciò che fa e perché lo fa. Vi confrontate sui temi delle migrazioni e delle ricadute sui paesi europei, sull’Italia e su queste piccole comunità della valle. Ormai siete a Valbondione e un poco dispiaciuto lo saluti e lo ringrazi. Mentre gli stringi la mano non sai nemmeno se lo stai ringraziando per il passaggio che ti ha dato o per quello che persone come lui rappresentano in questo mondo. Gli auguri un buon lavoro, mentre scendi e chiudi la portiera, lui ti sorride e ti saluta un’ultima volta con un gesto della mano. Te ne stai lì come un babbeo a guardare l’auto che affronta la salita e scompare dietro il primo tornante. Persone così le vorresti abbracceresti, perché sono il segno di una realtà che è già un passo avanti a tutti i discorsi pro o contro l’accoglienza e l’integrazione. Lui e tanti come lui, sono testimoni silenziosi che, tra le urla becere di gente miope, dimostrano con i fatti che un futuro è possibile, un futuro fatto di lavoro, di umiltà e di perseveranza. Ti incammini verso la tua auto e pensi che anche in questi incontri risiede la bellezza del mondo. I piedi ti conducono in questo breve cammino, fanno questo ultimo sforzo attendendo il momento in cui ti prenderai cura di loro, ma ora la tuo pensiero vola leggero tra le immagini che ti sono restate impresse in questa lunga giornata tra i monti. Alzi lo sguardo e riassapori quegli attimi, godendo ancora di quella bellezza fatta di neve, ghiaccio, roccia e cielo, di cui non potrai mai farne parte ma in cui potrai immergerti ogni volta che ne sentirai il desiderio. E tornato a valle scoprire anche quanta bellezza ci sia in un semplicissimo passaggio in auto da Fiumenero a Valbondione. Infine sei giunto al punto di partenza, togli lo zaino dalle spalle e lo appoggi a terra, prendi le chiavi e apri l’auto. È giunto il momento per assaporare l’intenso piacere che a breve proverai nell’allentare le stringhe, sfilarti gli scarponi, toglierti le calze e infine liberare i tuoi piedi nell’aria fredda della sera.

18 #PICCOLESTORIE

SCRIVERE E' UN PIACERE - UNA GIORNATA DI PIOGGIA

Oggi piove, gocce d’acqua lavano l’aria. Le temperature si sono abbassate, in casa ho acceso il camino. Scrivo ed osservo dalla finestra mentre tu leggi un romanzo davanti al fuoco. Esco sul terrazzo, mi immergo nell’aria fredda e nel rumore della pioggia che cade sugli antichi tetti e sul bosco dormiente. Chiudo la felpa e osservo. Poco dopo rientro e poso una mano tra i tuoi capelli, per una carezza, e ti saluto. Mi cambio ed esco sotto la pioggia. Ora è meno intensa. Corro lungo la mulattiera e salgo al poggio mentre le campane di San Grato invadono con un suono allegro la vallata, richiamando i fedeli a chissà quale cerimonia. Ognuno in fondo ha la sua cerimonia, il suo rito. Questo scampanio mi piace e a lungo mi accompagna. Corro nei colori che si sfrangiano ai mie lati, in un caleidoscopio che tutto raccoglie, miscela e rimanda. Per un attimo vedo distintamente la gemma gonfia, il germoglio delicato, la corolla di un anemone, la scorza gocciolante di una quercia, le foglie che macerano a terra, la selce che affiora dal calcare, lo stillicidio da una roccia aggettante. Migliaia di fermi immagine per il mio sguardo, per un istante solo, immobili, prima di fluire come infiniti fotogrammi. Il mondo e la natura si avvicinano, si fermano per poco negli occhi, mi lasciano e vanno oltre, dietro le spalle. Forse sono loro che si muovono ed io sono fermo. Sento belare, dietro la curva il piccolo gregge è un muro compatto sulla mulattiera, lo attraverso. Lana bagnata sfrega la pelle nuda delle gambe, saluto Costantino, lui mi guarda divertito da sotto il suo ombrello, un rapido scambio di battute e sono oltre, quasi al Casello. Gli occhi corrono più delle gambe, attenti ed ingordi per cogliere di più, sempre di più, e prestano attenzione ad ogni passo, ad ogni appoggio, alla pozza, al fango, alla pietra scivolosa, al ghiaietto sdrucciolo. È incredibile eppure accade. In frazioni infinitesime di secondo il messaggio va dagli occhi al cervello e da lì viene smistato ai tendini, ai legamenti, ai muscoli. La macchina corporea si adatta immediatamente applicando il giusto appoggio, la corretta angolazione, la spinta precisa che deve imprimere per non scivolare e per spingersi avanti nello spazio e nel tempo. Il mondo interiore mi affascina quanto quello esterno. La nostra natura umana e la natura del mondo si parlano attraverso i sensi ed i piedi, in un dialogo serrato e senza fine. L’aria è satura di suoni, i suoni della natura ed i rumori sempre diversi dei miei passi. Passi sul sentiero, sull’asfalto, sulla mulattiera, sull’erba bagnata. A volte le nubi avvolgono il bosco ed oltre il groviglio di tronchi e rami c’è solo il grigiore luminoso del vapore e di migliaia di gocce d’acqua giunte chissà da dove per dissetare questo angolo di terra. Sono fradicio e corro. Penso all’attimo in cui rientrerò nel tepore della casa, penso a te raggomitolata sul divano, davanti al camino. Alla doccia calda che mi attende. A quella sensazione di stanchezza e fatica che invade il corpo dopo ogni corsa ed ogni volta mi fa sentire vivo. Perso nei miei pensieri, continuo a bearmi del mondo che mi circonda e di tutto ciò che mi racconta
.

martedì 29 novembre 2016

17 #PICCOLESTORIE

SCRIVERE E' UN PIACERE - SENTIRSI A CASA


Mi sento a casa tra i miei monti e le mie valli. Mi sento a casa ai piedi del Monte Canto, dove sono nato e cresciuto. Mi sento a casa appeso sul grande scudo della Nord della Regina. Mi sento a casa tra i boschi del Canto Basso, in quel borgo dove ho “messo su casa” e vivo con la mia famiglia. Ma quella sensazione che sta racchiusa nella frase “Ti senti a casa quando …” è legata ad un momento esatto che ogni volta si ripete ed ogni volta mi fa dire: “Ecco! Ora mi sento a casa.”
Sono alla guida del mio mezzo e il nastro d’asfalto corre veloce sotto le ruote, mentre il mondo mi viene incontro ed io mi ci tuffo spavaldo. I guard-rail sfrecciano indistinti ai mie lati. Oltre, in lontananza, si delineano i paesaggi che poi si avvicinano, dapprima lentamente e quindi sempre più velocemente, sino a sfuocarsi, una volta giunti al limite del mio campo visivo, per venire infine risucchiati oltre le mie spalle.
I caselli autostradali si susseguono con regolarità: Brescia ovest, Ospitaletto, Rovato, Palazzolo, Ponte Oglio, Telgate, ed io scruto all’orizzonte il profilo dei monti, cercando le sagome a me più familiari. Eccole iniziano a delinearsi e c’è un momento esatto in cui tutte compaiono: la dorsale del Monte Misma che si affonda nelle dolci curve dei colli di Scanzo; il vuoto della valle Seriana che si insinua tra i rilievi; il lungo crinale che unisce le Podone, la Cima Bianca, il Costone, la Filaressa, il Cavallo, il Canto Basso e il Canto Alto sino a sfumare nei colli della Maresana e di Ranica; in lontananza il Resegone e le Grigne. Penso a tutte le volte che ho percorso quei crinali correndo e osservando la pianura e immagino già il momento in cui, giunto a casa, tornerò a correre lungo quelle linee sospese nel cielo. Il motore gira e il furgone macina gli ultimi chilometri. Gli occhi rincorrono questi profili e inizio a sentire profumo di casa. A volte provo una sensazione strana e mi chiedo: “Ma se il Misma si scambiasse il posto con il Canto Alto? Sarebbe proprio un gran bello scherzo! Quindi mi preparo per qualsiasi evenienza, perché non si sa mai che possa accadere una delle prossime volte”. Nel mentre sorrido a questi pensieri assurdi e pregusto l'attimo in cui mi addentrerò nell’abbraccio di quei monti, per raggiungere casa. Seriate. Esco dall’autostrada, e ripercorro con lo sguardo, per l'ennesima volta, i profili contro il cielo: le creste boscose che dal Canto Alto che scendono verso la Filaressa, per poi risalire alle Podone. Ora sento di essere a casa. Lì, tra quella corona di monti, che abbraccia le valli della Nesa, ho messo le mie radici.
Ogni volta tutto ciò si ripete come un rito. È come se, in quei pochi chilometri, in quegli istanti, mi arrivasse la conferma che il mondo non è cambiato e tutto è come l’ho lasciato. Sono a casa. A breve, ritroverò la strada che esce dal paese, che svolta a sinistra e si infila nel bosco, quindi il bivio e i due tornanti finali, il parcheggio, le due rampe di scale e la mia casa sul limitare del borgo, affacciata sulla vigna e sulla valle. Di sovente, per non dire sempre, la stessa canzone mi torna sulla labbra.
“La casa sul confine della sera,
oscura e silenziosa se ne sta,
respiri un'aria limpida e leggera …
La casa è come un punto di memoria,
le tue radici danno la saggezza
e proprio questa è forse la risposta
e provi un grande senso di dolcezza …”

martedì 22 novembre 2016

16 #PICCOLESTORIE

16 #PICCOLESTORIE – SYRINX
Arrampicare in bilico tra botanica e musica


Ed io che pensavo che il nome Syrinx si ispirasse alla radice latina di Syringa vulgaris, il Lilla, un rustico arbusto con una fioritura profumatissima. E' stata la mia formazione scientifica e botanica ad avermi portato su questa strada, anche se percepivo una nota stonata, giusto per entrare in tema con l'intuizione che piano piano prendeva forma nella mia zucca. Questo arbusto ornamentale cresce nei giardini e non nei nostri boschi, men che meno sulle ripide pendici che sostengono il Pinnacolo di Maslana. Se volevo scoprire la vera origine di quel nome dovevo cambiare prospettiva, spogliarmi delle mie conoscenze e partire dall’inizio, quando quella porzione di parete del Pinnacolo era ancora vergine, senza alcuna via di salita. Cosa ci avrà visto Alessandro quando la salì e decise di chiamare la nuova linea Syrinx? Conosco Alessandro mi pare di ricordare che non abbia come passione la botanica ma bensì la musica. - Andate a dare un occhio alla sua pagina e troverete oltre alle foto di montagne altre immagini in cui lo vedrete in tenuta da concerto, impegnato a suonare il flauto. - Quindi digito Syrinx nel motore di ricerca ed ecco cosa mi ritrovo:"Syrinx è una composizione di Claude Debussy per flauto solo, del 1913. Considerata una delle composizioni più significative per questo strumento". Altro che il profumo dei fiori di lillà, in quella prima salita c’era Debussy ad accompagnare Alessandro. Ma la piccola storia che mi sto immaginando non può chiudersi così, il finale sarebbe troppo serioso. Non ce lo vedo Alessandro in cima al Pinnacolo, a fianco della candida Madonnina che ne orna la cuspide sommitale, con il suo flauto a suonare Debussy. Anzi, a dire il vero, ce lo vedrei e vi confesso che sarebbe una gran bella scena: lui in bilico sulla cresta affilata, come nelle foto di Rebuffat, in perfetta tenuta da concerto, il flauto che riflette in guizzi di luce i raggi del sole e le note di questa meravigliosa composizione che si espandono nell’aria. Si, sarebbe una gran bella scena, ne uscirebbero delle riprese meravigliose, ma non funziona, manca qualcosa, devo immaginare dell’altro. Continuo le ricerche sulle origini del termine latino Syrinx e mi imbatto nelle Metamorfosi di Ovidio. Bingo! Ecco ciò che mancava per chiudere il racconto. - Syrinx era una bellissima ninfa, seguace di Artemide, il dio Pan se ne invaghì perdutamente, ma lei lo rifuggì e sulle rive del fiume Ladone implorò le Naiadi di salvarla. Detto, fatto. Fu trasformata in un fascio di canne palustri che scosse dal vento sembrava suonassero. Pan, disperato per la perdita, ne colse alcune e con esse costruì un nuovo strumento: il flauto di Pan. - Dal mito torniamo al nostro Pinnacolo. Immaginiamoci nuovamente ai suoi piedi. La colonna sonora l’abbiamo già scelta ed è la composizione di Debussy, ora se, al cospetto di questa guglia perfetta, alziamo lo sguardo non faticheremo a riconoscere un simpatico fauno, proprio lui Pan, che rincorre e gioca con Syrinx e le altre ninfee dei dirupi. Forse proprio a questo pensava Alessandro quando, nel 1998, apriva la sua nuova via. Non lo so, ma una cosa è certa, quando tornerò ad arrampicare in questo luogo non potrò fare a meno di sorridere e ripensare a questa piccola storia, facendomi accompagnare da Debussy, da Syrinx, dalle Ninfee e da Pan.

sabato 19 novembre 2016

23 #UNIMMAGINEDICEPIUDIMILLEPAROLE


Domenica 12 ‎novembre ‎2016, ‏‎15:26:47 - Olera - Plassöi



A volte ci si deve entrare dentro, nei luoghi. A volte non ci si deve limitare ad attraversarli ma ci si deve perdere dentro. Percorrere e ripercorrere le strade fatte e cercarne di nuove. Esplorare lo spazio e cambiare continuamente punto di osservazione. Concentrarsi sul dettaglio senza perdere la visione d'insieme. Godersi la vastità di un panorama senza scordare il lembo di terra su cui si appoggiano i nostri piedi. E in ogni caso fermarsi. Fermarsi anche solo un attimo.
Appoggio la bicicletta al muro di questa cascina abbandonata. Sgombero la mente dai pensieri e dalle preoccupazioni contingenti. Sono lì, immerso nell'autunno del bosco e lascio scivolare tutto il resto, lontano. Respiro. Un brivido di freddo mi percorre la schiena bagnata di sudore, varco la porta spalancata. Entro, lo sguardo si abitua alla penombra. Osservo quello spazio spoglio e polveroso. Mi siedo in un angolo, su una panca di pietra, e ascolto quello che quei semplici oggetti mi possono raccontare. Un tavolo, due sedie, uno scolapiatti, un armadietto e poche altre cose scolpite dalla luce che entra dalla porta e dalla grata della finestrella ingombra di vegetazione. Quante vite saranno sbocciate e si saranno consumate tra questi muri, al ritmo di gesti quotidiani e di eventi irripetibili, in un alternarsi di gioie e dolori, di preoccupazioni e soddisfazioni. Vite che, nella loro essenza, sono poco dissimili dalla mia. Un rumore richiama la mia attenzione, alzo lo sguardo e incrocio quello di un ghiro, che mi osserva per un attimo e poi sparisce tra le travi di legno del soffitto. Ecco di chi sono tutti quei gusci di nocciole, rosicati e sparsi sul tavolo. Anche questi sono segni di vita. Mi alzo ed esco con la sensazione di avere goduto di uno spazio e di una intimità che non mi spettavano. Allora come segno di rispetto e gratitudine verso questo luogo, dopo un ultimo sguardo, chiudo il portoncino come a proteggere le memorie custodite da questi muri. Inforco la bici e riprendo a pedalare. Ora tutto mi sembra più leggero e, dopo avere scollinato, mentre inizio una gran bella discesa mi sento un poco come il ghiro che ora sarà alle prese con il suo mucchio di nocciole da sgranocchiare. Felice

sabato 5 novembre 2016

#22 UN IMMAGINE DICE PIU DI MILLE PAROLE

martedì 1 ‎novembre ‎2016, ‏‎08:42:54 – Valbondione - Pinnacolo di Maslana – Via “Vento beffardo”

“Quando l’odore del sole ci prende
mentre bacia di vita le cose,
le cose mostrano il verso perfetto
circolare e paziente del tempo.”
Angelo Andreotti – Dell’ombra la luce


Una goccia di luce cade sulla cuspide, e da lì cola inesorabile lungo i fianchi del Pinnacolo. Scivola e scende a cancellare l’ombra, che cede il passo, si ritrae e si nasconde, rifugiandosi nel profondo delle fessure, sotto l’ala protettrice dei grandi tetti e negli angusti camini. Luce e ombra si amalgamano in una linea sottile che scorre e lenta precipita sino ad approdare a terra. Dove il lenzuolo d’ombra scivola verso valle e la luce spolvera di oro, di rame e di zolfo le erbe e le chiome che profumano d’autunno.

Siamo appena usciti dal bosco. Sotto di noi la valle è un fiordo colmo di nubi. Maslana è un grumo di baite lambito dalla risacca di questo insolito mare. Sopra di noi lo spettacolo si dispiega ai nostri occhi sino a fermare il nostro passo. Immobili nell’ombra osserviamo, in attesa. Eccola! La luce ci coglie, ci avvolge, ci scalda e va oltre. Riprendiamo il cammino e solo il ripido prato ci separa da queste geometrie essenziali, linee protese verso il cielo. Siamo soli, anche questo è un dono inatteso, ed iniziamo a scalare. La roccia è calda ed è un piacere fare scivolare le mani su di essa alla ricerca dell’appiglio perfetto. Il vento da nord, nei punti più esposti, ci regala fredde carezze. Non c’è nessuno a farci compagnia se non un chiassoso stormo di gracchi. Procediamo nella scalata inseguiti dalle nostre ombre con cui danziamo, movimento dopo movimento. E poi il silenzio e il tempo che scorre lento mentre in sosta, sospeso nel vuoto della parete, fai scorrere le corde e non devi fare null’altro che guardarti attorno, lasciare andare i pensieri e riempirti della bellezza che ti circonda, fatta di ombra e di luce.

venerdì 4 novembre 2016

15#PICCOLESTORIE

SCRIVERE E' UN PIACERE – Nella casa dell’infanzia


Nella mia infanzia c’era un oggetto meraviglioso che era strumento di vere e proprie magie, permetteva di portare a compimento i desideri. Non tutti, solo qualcuno. A pensarci ora mi viene da sorridere e mi pare anche un poco ridicolo, questo ricordo. A pensarci bene non saprei nemmeno perché la frase “nella casa dell’infanzia” abbia fatto emergere questo specifico ricordo. Vediamo un poco da che parte iniziare. Della cucina calda e della sala - regno del gelo - già sapete tutto. Ora immaginatevi due cose: le lancette della sveglia appoggiata sul frigorifero, che si avvicinano inesorabilmente alle 4,30, e un pistolino di sei, sette anni, anche un poco cicciottello, che chiede alla mamma di potere vedere la televisione. Ok, cambio di scena.
“Posso vedere la televisione?”. La mamma lancia uno sguardo attraverso lo specchio e dice: “Va bene! Ma stai attento”. Io piccino dalla cucina entro in sala e mi avvicino alla TV, qualcosa di gigantesco che incombe e se ne sta appoggiata su un carrello di legno e metallo dotato di quattro rotelle. Il compito che mi appresto a svolgere è di grande responsabilità – o per lo meno così lo percepivo -  trascinare al caldo della cucina il carrello e la sovrastante televisione, senza fare alcun danno. Carrello e TV se ne stanno incastraste tra due mobili nell’angolo opposto alla porta che unisce i due locali. L’impresa è di notevole impegno e il tragitto tortuoso e stretto, guai seri mi attendono se rovino le cose belle della sala. Con attenzione faccio scorrere il carrello in avanti per potere infilarmi tra l’apparecchio e il muro, quindi stacco la presa della corrente e quella dell’antenna, per fissarle al carrello. Di spingere il carrello non se ne parla nemmeno, questo se ne andrebbe in ogni direzione ad urtare i mobili, quindi lo tiro. Le rotelle sono piccine e fanno le bizze, quando incrociano le fughe delle piastrelle sono sempre pronte a cambiare direzione. Non senza preoccupazioni riesco a percorrere il lato lungo della sala, tra il tavolo e l’armadio basso con lo specchio. Ora devo affrontare un angolo a 90° e poi mi attende il lato corto, dove per mia fortuna non ci sono i mobili ma solo – si fa per dire – il tendaggio che copre la finestra. Percorro il secondo rettilineo e finalmente imbuco la porta, per ritrovarmi in cucina. Ora attacco la spina alla presa della corrente, posizionata vicino alla porta, e stacco dal carrello il rotolo del cavo bianco e semirigido, che il papà ha tagliato della lunghezza esatta, lo stendo ripercorrendo la strada fatta e lo collego alla presa dell’antenna TV. Ecco fatto! Anche questa volta non ho combinato danni. Anche questa volta, dopo avere chiuso la porta della sala. facendo attenzione che il cavo tv non si schiacci, accendo la televisione appena in tempo per godermi “Le avventure di Ciuffettino”.
A volte, ricordo, che mi aiutava anche la mia sorellina, soprattutto per fargli fare la curva, a quel benedetto carello pronto ad andare a sbattere contro i mobili. E poi ricordo che pure la mamma, riposizionato lo specchio e senza smettere di lavorare alla tagliacuce, si godeva la trasmissione. Noi ce ne stavamo seduti al tavolo o sdraiati a terra, sopra i sacchi pieni delle pezze di scarto del lavoro di mamma. Quando Ciuffettino era nella casa del Lupo Mannaro io avevo anche un poco di paura, ma ero grande e non potevo darlo a vedere.


La televisione era certamente una bella cosa ma senza quel carrello col cavolo che avremmo potuto vedere la “Tv dei Ragazzi”. Poi arrivava l’estate e il carrello tornava prepotentemente protagonista, in occasioni particolari, grazie a lui, era festa. Dalla sala si portava il divano sotto il portico, così come le sedie dalla cucina. Si apriva la finestra, che dalla sala si affacciava sul portico, e il carrello, con la sua inseparabile televisione, usciva dall’angolo tra i due mobili e percorreva il tragitto: lato lungo e mezzo lato corto, sino ad affacciarsi alla finestra. Arrivavano pure i cugini e gli zii, non ricordo cosa si guardasse, non era importante, ma l’aria di festa quella la ricordo bene. Magico carrello, chissà che fine a fatto. Ora chiamo la mamma, che sicuramente mi saprà dire qualcosa e certamente si ricorderà un sacco di altri dettagli. Già che ci sono, proverò a chiedere se anche a lei “Le avventure di Ciuffettino” facevano un poco paura.

15#PICCOLESTORIE - Nella casa dell’infanzia

SCRIVERE E' UN PIACERE – Nella casa dell’infanzia


Nella mia infanzia c’era un oggetto meraviglioso che era strumento di vere e proprie magie, permetteva di portare a compimento i desideri. Non tutti, solo qualcuno. A pensarci ora mi viene da sorridere e mi pare anche un poco ridicolo, questo ricordo. A pensarci bene non saprei nemmeno perché la frase “nella casa dell’infanzia” abbia fatto emergere questo specifico ricordo. Vediamo un poco da che parte iniziare. Della cucina calda e della sala - regno del gelo - già sapete tutto. Ora immaginatevi due cose: le lancette della sveglia appoggiata sul frigorifero, che si avvicinano inesorabilmente alle 4,30, e un pistolino di sei, sette anni, anche un poco cicciottello, che chiede alla mamma di potere vedere la televisione. Ok, cambio di scena.
“Posso vedere la televisione?”. La mamma lancia uno sguardo attraverso lo specchio e dice: “Va bene! Ma stai attento”. Io piccino dalla cucina entro in sala e mi avvicino alla TV, qualcosa di gigantesco che incombe e se ne sta appoggiata su un carrello di legno e metallo dotato di quattro rotelle. Il compito che mi appresto a svolgere è di grande responsabilità – o per lo meno così lo percepivo -  trascinare al caldo della cucina il carrello e la sovrastante televisione, senza fare alcun danno. Carrello e TV se ne stanno incastraste tra due mobili nell’angolo opposto alla porta che unisce i due locali. L’impresa è di notevole impegno e il tragitto tortuoso e stretto, guai seri mi attendono se rovino le cose belle della sala. Con attenzione faccio scorrere il carrello in avanti per potere infilarmi tra l’apparecchio e il muro, quindi stacco la presa della corrente e quella dell’antenna, per fissarle al carrello. Di spingere il carrello non se ne parla nemmeno, questo se ne andrebbe in ogni direzione ad urtare i mobili, quindi lo tiro. Le rotelle sono piccine e fanno le bizze, quando incrociano le fughe delle piastrelle sono sempre pronte a cambiare direzione. Non senza preoccupazioni riesco a percorrere il lato lungo della sala, tra il tavolo e l’armadio basso con lo specchio. Ora devo affrontare un angolo a 90° e poi mi attende il lato corto, dove per mia fortuna non ci sono i mobili ma solo – si fa per dire – il tendaggio che copre la finestra. Percorro il secondo rettilineo e finalmente imbuco la porta, per ritrovarmi in cucina. Ora attacco la spina alla presa della corrente, posizionata vicino alla porta, e stacco dal carrello il rotolo del cavo bianco e semirigido, che il papà ha tagliato della lunghezza esatta, lo stendo ripercorrendo la strada fatta e lo collego alla presa dell’antenna TV. Ecco fatto! Anche questa volta non ho combinato danni. Anche questa volta, dopo avere chiuso la porta della sala. facendo attenzione che il cavo tv non si schiacci, accendo la televisione appena in tempo per godermi “Le avventure di Ciuffettino”.
A volte, ricordo, che mi aiutava anche la mia sorellina, soprattutto per fargli fare la curva, a quel benedetto carello pronto ad andare a sbattere contro i mobili. E poi ricordo che pure la mamma, riposizionato lo specchio e senza smettere di lavorare alla tagliacuce, si godeva la trasmissione. Noi ce ne stavamo seduti al tavolo o sdraiati a terra, sopra i sacchi pieni delle pezze di scarto del lavoro di mamma. Quando Ciuffettino era nella casa del Lupo Mannaro io avevo anche un poco di paura, ma ero grande e non potevo darlo a vedere.


La televisione era certamente una bella cosa ma senza quel carrello col cavolo che avremmo potuto vedere la “Tv dei Ragazzi”. Poi arrivava l’estate e il carrello tornava prepotentemente protagonista, in occasioni particolari, grazie a lui, era festa. Dalla sala si portava il divano sotto il portico, così come le sedie dalla cucina. Si apriva la finestra, che dalla sala si affacciava sul portico, e il carrello, con la sua inseparabile televisione, usciva dall’angolo tra i due mobili e percorreva il tragitto: lato lungo e mezzo lato corto, sino ad affacciarsi alla finestra. Arrivavano pure i cugini e gli zii, non ricordo cosa si guardasse, non era importante, ma l’aria di festa quella la ricordo bene. Magico carrello, chissà che fine a fatto. Ora chiamo la mamma, che sicuramente mi saprà dire qualcosa e certamente si ricorderà un sacco di altri dettagli. Già che ci sono, proverò a chiedere se anche a lei “Le avventure di Ciuffettino” facevano un poco paura.

mercoledì 26 ottobre 2016

14 #PICCOLE STORIE

SCRIVERE E' UN PIACERE – Un luogo che mi è caro

LA CUCINA D’INVERNO. Non vi voglio parlare della mia cucina d’oggi dove, nelle sere d’inverno, il camino è acceso e dopocena ognuno si trova il suo angolo per fare ciò che più gli piace. Scrivere, chiacchierare, leggere o anche non fare nulla e trascorrere il tempo a sonnecchiare o ad osservare il colore delle braci e il guizzare della fiamma.
Ho già detto troppo dell’oggi. “Un luogo che mi è caro” di cui voglio scrivere se ne sta invece in un ieri remoto. E non è la nostalgia che mi fa tornare a quello spazio, e nemmeno la malinconia che possono suscitare i ricordi d’infanzia, ma ciò che mi spinge a scrivere di quel luogo è la ferma consapevolezza che in quel minuscolo locale mi sono formato, sono cresciuto e sono arrivato ad essere l’uomo di oggi, vivendo nel flusso di un continuo presente.
Ho chiacchierato già troppo, ora veniamo al dunque.
D’inverno l’unico ambiente riscaldato della casa era la cucina, uno stanza lunga e stretta affacciata sul portico, a memoria direi tre metri per cinque, ma ai miei occhi da bimbo era immenso. Lì la mamma lavorava alla macchina da cucire, lì mia sorella ed io facevamo i compiti e giocavamo, lì si cucinava, si mangiava, si scaldava l’acqua per lavarsi, si asciugavano i panni e molto altro ancora. La stufa, ovvero la cucina economica, se ne stava quasi in fondo sul lato destro, attorno a lei ruotava la vita della famiglia intera. A noi piccoli spettava l’incombenza di andare a prendere la legna e tenerla carica.
Quindi, riepilogando. Si entrava dalla porta a vetri, unica fonte di luce dello spazio, e sulla destra appoggiata al muro c’era la sua tagliacuce su cui la mamma era costantemente al lavoro. Sulle piastrelle, davanti a lei, con una ventosa era appeso un piccolo specchio, di quelli col bordino di plastica colorata acquistato al mercato del venerdì. Lo specchio serviva alla mamma per potere controllare, con un semplice sguardo, tutto lo spazio e tenere d’occhio che cosa combinassimo, senza dovere sospendere il lavoro. Poi c’era il tavolo di formica gialla appoggiato al muro, per la cena lo spostavamo verso il centro, anche le sedie erano di formica gialla. Verso il fondo si trovava la stufa sempre accesa. La “scolderena” era sempre piena d’acqua calda e il tubo smaltato di bianco saliva diritto verso il soffitto, per poi fare una curva a gomito e attraversare una parte della cucina, sino ad entrare nel muro dove c’era la canna fumaria. Nel tratto verticale del tubo ci stava un marchingegno, una specie di corona, che permetteva di bloccare delle stecche di ferro in orizzontale, a formare una raggiera su cui stendere i panni da fare asciugare. Nell’angolo ci stava una specie di cassettone per la legna. Sulla piccola parete opposta all’ingresso c’era una finestrella, coperta da una tenda pesante, forava un muro di oltre un metro di spessore e si collegava alla cantina. Era posta in alto e non era accessibile a noi bambini, forse ricordo male ma lì in una “moscarola” si teneva il cibo che doveva stare al fresco. Sul lato sinistro, dal fondo verso l’ingresso, nell’ordine c’erano il lavandino e il fornello, con sopra lo scolapiatti e due armadietti smaltati di bianco, poi il frigorifero e infine la porta per andare in sala: il regno del gelo. In sala c’erano i mobili belli, con il divano e la TV, in sala ci si stava d’estate e, per quanto mi ricordo, solo nei giorni di festa. Da qualche parte, non rammento più dove con esattezza c’era un piccolo cesto rettangolare, fatto con striscioline intrecciate di plastica bianca e verde, con quattro gambette bianche e il suo bel coperchio, anch’esso colorato, in cui c’erano tutti i nostri giochi. La vita era in cucina. Per andare nelle camere e in bagno si usciva nel portico e si saliva la scala esterna, la zona notte era al piano di sopra e non era riscaldata.
La cucina d’inverno era bellissima, lì c’era tutto quello che io bambino potevo desiderare. Tornavo da scuola e mi aspettava la mamma con le patatine fritte. Poi c’erano le maglie di tutte le squadre di calcio, mucchi e mucchi, sulle sedie e sul tavolo, a cui tagliare i “codini”, ma questa è un’altra storia. Quindi c’erano tante pezze e panni colorati e rocchetti di filo di tutte le misure e colori con cui giocare. E poi la legna con cui costruire città intere e piste infinite per le biglie e le macchinine. Quando rientravamo dai giochi in cortile, che non conoscevano soste ne con il gelo ne con la neve, con i piedi gelidi e fradici e le mani rosse e con i geloni, ci si spogliava e, aperto lo sportello del forno della stufa, ci si scaldava i piedi appoggiandoli al suo imbocco. Dei compiti non ricordo quasi nulla però dell’Atlante De Agostini mi ricordo benissimo e ancora oggi ho l’esatta memoria dei viaggi che mi inventavo sopra gli oceani e tra i continenti, alla scoperta del mondo. Giungeva quindi l’ora della “Tv dei Ragazzi” e spuntava per incanto la televisione, ma di questa magia forse ne scriverò un’altra volta. Poi arrivava un momento anzi “il momento” in cui la mamma diceva “Bambini! È ora!” e noi sapevamo esattamente cosa voleva dire. Lei continuava a lavorare e noi iniziavamo a sistemare. Io mi ricordo che sistemavo benissimo, sistemavo tutto ed ero bravissimo, forse mia mamma potrebbe ridire qualcosa e mia sorella, se interpellata nel merito, avrebbe sicuramente ricordi ben diversi. Poi, sempre sotto quel suo sguardo riflesso nel piccolo specchio appeso al muro, seguivamo le sue indicazioni per preparare la cena. Infine si alzava e, dopo avere impacchettato in bell’ordine le maglie dei calciatori, cucinava sulla stufa e sui fornelli mentre ci aiutava ad apparecchiare la tavola. D’inverno papà tornava dal lavoro quando era già buio, dopo un lungo viaggio in corriera, entrava in casa e ci si sedeva a tavola per la cena. Non ricordo di cosa si parlasse ma ricordo che guardavamo Il Bernacca, Il Telegiornale e Il Carosello, per poi prenderci, dal forno della stufa, il nostro mattone bello caldo ed avvolto in un panno, coprirci bene, uscire e salire al piano di sopra, per tuffarci, in compagnia del nostro mattone, tra le lenzuola di flanella, sotto una trapunta che pesava una cifra ma che tratteneva bene il caldo, come un igloo al polo nord.

E così è stato sino a quando iniziò il cantiere in cui lavorammo tutti in famiglia  Rubammo un piccolo spazio alla cantina e fu realizzata una scala interna e infine tutti gli spazi della casa vennero dotati di un impianto di riscaldamento. Lavorammo tutta estate e i primi mesi della scuola. Iniziai così la quarta elementare.

sabato 22 ottobre 2016

#21 UN IMMAGINE DICE PIU DI MILLE PAROLE

Sabato 15 ‎ottobre ‎2016, ‏‎14:19:32 – Finale Ligure – Bric Pianarella – Via “Menti perdute”

“Meraviglia dello stare bene
… e si sta leggeri come capre sulla rupe
della gioia.”
Mariangela Gualtieri


E poi arriva il momento in cui parti. Stacchi da tutto e da tutti. Butti lo zaino e la sacca nel furgone, passi a prendere un amico, e sai che per tre giorni le tue occupazioni saranno poche ed essenziali: mangiare, dormire e arrampicare, non ti vuoi preoccupare d’altro, non ti dovrai preoccupare d’altro. Non importa dove vai, purché ci sia una “rupe” su cui salire e tutto intorno il blu del cielo, il verde della macchia e in lontananza il luccichio del mare. La meraviglia ti circonda e tu ti immergi, seguendone il ritmo, assecondandone gli umori. Risvegli lenti, senza l’urgenza dei lunghi avvicinamenti e l’incombere delle grandi pareti. Brevi camminate nel fitto della lecceta e poi ha inizio il gioco. Gesti consueti, familiari, ripetuti migliaia di volte. Quando avrai staccato i piedi da terra, tutto dovrà essere al suo posto, in ordine. Ripeti il rituale conosciuto e come ogni volta presti attenzione. Mettere il casco. Indossare l’imbrago e fissarlo per bene. Agganciare le coppie sul porta-materiale, sei a destra e sei a sinistra. Appendere il discensore e i moschettoni a ghiera, con i cordini della sosta, sulla sinistra. La macchina fotografica la metti sulla destra e le fettucce a tracollo. Legarsi in vita il cordino con il sacchetto della magnesite. Svolgere le due mezze-corde e legarsi i due capi all’imbrago. Controllare che i nodi siano giusti. Fissare le scarpe con un piccolo moschettone a ghiera all’anello posteriore dell’imbrago. Pulire la suola delle scarpette da scalata, calzarle e chiudere bene i velcri. Infilare le mani nel sacchetto della magnesite e alzare lo sguardo alla parete. Dire al socio “Parto!”. Concatenare appigli e appoggi, cercando di essere leggero, per ritrovarsi su una piccola cengia nel centro della parete. Attendere il socio che, arrivato in sosta, riparte verso l’alto, alternandosi al comando della cordata. Godere del tempo che passa lento e di quella gioia sottile che senti vibrare mentre la corda scorre tra le mani e lo sguardo ingordo si nutre di tutto quanto ti sta attorno. Concentrato su quel tuo procedere verticale, non smetti di cogliere i piccoli dettagli e gli ampi panorami che solo da lassù puoi godere. Arrampicare è tutto questo. Arrampicare, sino a quando la parete non sfuma nei boschi dell’altipiano. Arrampicare, sino a quando il corpo spossato esige il riposo. Arrampicare, sino a quando non giunge la sera. Arrampicare, per ritrovarsi stanchi a mangiare della farinata accompagnata da un buon bicchiere di vino, mentre una luna piena e luminosa si alza nel cielo, illuminando a giorno le rupi e accompagnandoti nel sonno.

giovedì 20 ottobre 2016

#20 UN IMMAGINE DICE PIU DI MILLE PAROLE

Lunedì 17 ‎ottobre ‎2016, ‏‎14:58:22 – Finale Ligure – Rocca di Corno – Via “Rombo di tuono”


Alzo lo sguardo, lui è lì! Se ne sta piantato nel bel mezzo degli strapiombi. La sua presenza un poco mi sorprende e mi inquieta. Incastrato tra due lame di roccia si aggrappa e si protende. Attorno i gialli e gli ocra spruzzano il bianco del cavo di quest’onda gigantesca e immobile. Un mondo pietrificato e capovolto incombe su di me. La corda, lenta, scorre tra le mani. Curioso sollevo nuovamente lo sguardo sino a slogarmi il collo: è ancora lì abbarbicato a quel soffitto. Un’ostinata presenza a rivendicare il proprio diritto di stare dove meglio gli pare, oltre ogni logica, lottando sospeso nel vuoto di questo gigantesco antro. Il corpo ritorto si adatta alle forme della pietra, quasi a strisciare verso l’alto, verso la luce, come a fuggire dall’aridità minerale di quei recessi. Riabbasso lo sguardo. La corda è immobile tra le mani. E mi ritrovo a scandire a mezza voce: “Ma qualcuno mi vuole spiegare cosa ci fa proprio lì un fico? Come può vivere in questo deserto spoglio e rovescio quella macchia di linfa e colore?” Nel mentre c’è qualcuno che grida la in alto, e vi posso giurare che non è il fico: “Allora! Me la dai o no questa corda?” Sorridendo do corda.

#19 UN IMMAGINE DICE PIU DI MILLE PAROLE


Domenica 9 ‎ottobre ‎2016, ‏‎13:06:48 – Carnit (Olera) -


“Dare”. Ogni volta è una sfida. Ogni volta è una provocazione. E tutte le volte che entro in cantina lei è lì, la vedo di taglio, sopra un piano di legno, appoggiata ai bancali contro il muro. Quieta, attende che io la prenda per andare a scorrazzare nei boschi dietro casa. Ma passano mesi, entro e esco per fare altro, per prendere il miele o per depositare le patate, per scegliere una bottiglia di vino o per spillare l’olio, per lasciare un formaggio a stagionare o per appendere un salame. Non passa volta che non mi fermi, anche solo un attimo, a darle uno sguardo alle sue strane geometrie impertinenti, a quelle forme massicce e nel contempo espressioni di movimento. Poi arriva l’attimo e c’è quella volta che apro la porta della cantina e lei sa che è giunto il momento. Deciso la sollevo e ne assaporo tutto il peso, la appoggio a terra e mi restituisce un senso di stabilità. Lei è sempre pronta per ogni “sfida”, sono io che, anno dopo anno, mi presento un poco più arrugginito. Mentre esco in cortile, ogni volta, mi torna in mente la notte in cui Andrea mi disse: “Io non la uso, prendila tu!” e ci ritrovammo al buio, sotto la pioggia, ad infilarla dentro la Panda. Ogni volta che la porto a spasso, la “Dare”, mi da un sacco di soddisfazioni e sono sempre un poco imbarazzato mentre un senso di gratitudine mi coglie al termine di ogni discesa. Grazie, ti aspettiamo per scorrazzare insieme nei colori dell’autunno.

lunedì 10 ottobre 2016

#18 UN'IMMAGINE DICE PIU' DI MILLE PAROLE

Domenica 9 ‎ottobre ‎2016, ‏‎11:46:56 – Valle di Prato Canino
“Nell’anno del Signore 1392, con il riferimento topografico di prato Canino o Piz Canino, si definisce il confine est del Comune di Ponteranica con i Comuni di Ranica e Nese.”


Fermati. Ascolta. Svuota le orecchie dal rumore della velocità: dell’aria che sibila nel casco, dei pneumatici che mordono la terra, della catena che sferraglia, degli ammortizzatori che lavorano, dei rami secchi che si spezzano sotto le ruote. Fermati. Oltre le chiome il cielo è grigio e promette acqua, in alto le nubi avvolgono le creste del Canto. Sotto i castagni, la penombra odora di una pioggia che sarà. Annusa l’aria e alza lo sguardo seguendo la linea dei tronchi protesi in uno slancio immobile, esseri affamati d’ossigeno e luce. Ora come allora, immerso in questo mondo vegetale che pulsa e respira, il tempo e il suo scorrere perde ogni significato. Immobile, ascolta. Il tuo respiro si è placato e il tuo battito ha ritrovato la quiete. Come un recipiente vuoto inizia a colmarti di suoni. I fischi dei tordi che, inseguendo l’estate, ora riposano prima del grande volo, verso il caldo africano. Lo stormire delle foglie rimestate dalla mano del vento. Ed è allora che senti il suono di una strana pioggia, brevi raffiche di colpi secchi sul tappeto di foglie e di rovi, ora vicine, ora lontane. Dalla memoria riemerge una voce, un ricordo. Quando piccino accompagnavi tuo nonno per i boschi sopra casa, lui si fermava e ti diceva: “Scólta! I cróda i castègne.” Chissà cosa ha pensato il biker che arrivando in fondo alla discesa ti ha trovato lì, fermo e immobile nel fitto del bosco, in parte alla bicicletta abbandonata a terra. Un cenno di saluto ed è sfrecciato via. Tutto è tornato immobile, il ricordo è ancora sospeso a mezz’aria. Per un attimo sei restato ancora immobile, gustando i suoni del bosco e della voce che fu. Infine hai guardato la bici, l’hai presa e ti sei rimesso a pedalare, in equilibrio suii confini d’oriente tra Ponteranica e Ranica, lungo la valle di Prato Canino.

sabato 8 ottobre 2016

13 #PICCOLE STORIE

Venerdì 7 ottobre 2016 - Oggi. Oggi vado a lavorare in bici. Seguo la ciclabile nell’aria fredda del mattino. Cerco di non correre per non sudare ed evitare di arrivare in ufficio madido e puzzolente. Le colleghe non gradirebbero. Lo zaino è carico: le catene per evitare che la rubino, un cambio per il rientro, gli attrezzi per le riparazioni, una camera e la pompa per eventuali forature, le protezioni per ginocchia e gomiti da usare in discesa. Il venerdì la giornata lavorativa è breve. Ore 14 si stacca. Mi cambio e recupero la bici. Le vie del centro sono intasate di bancarelle e gente che passeggia, beve e mangia. Mi allontano pedalando lentamente, godendomi il profilo delle mura e della città alta che si stagliano contro un cielo azzurro autunno. Imbocco la Greenway del Morla, che nome pomposo e assurdo per una ciclabile. Nella cintura verde che abbraccia le mura venete della città vecchia, qualcuno corre, qualcuno passeggia con il cane, le acque della Morla scorrono tra i salici e i pioppi. La salita della Maresana si avvicina inesorabile. Come al solito sarà una bella lotta ma oggi l’aria è fresca e mi sento bene. Si inizia. Le rampe si susseguono inesorabili, il sudore cola sul volto e lungo la schiena. Il respiro è regolare e le gambe spingono senza lamentarsi troppo. La ruota gira sotto i miei occhi come fosse una preghiera tibetana, un mantra per il mio sguardo che la fissa, come fosse lei, la ruota, a trascinarmi i questa salita. Le gocce di sudore si staccano dal volto e bagnano il telaio. Diamine! Sono già in Maresana. Una breve pausa alla fontanella e riparto, inseguo la mia ruota. Ultimo strappo e poi la strada spiana verso la Croce dei Morti. Wow! Esulto e qualcuno, oltre una cancellata, mi risponde simpaticamente. Mi fermo e così conosco Alvise, ma di lui parlerò un’altra volta. Continuo e la mia ruota è stufa di asfalto e imbocca il sentiero che sale al Colle di Ranica. Pedalare è un piacere e mi ritrovo ben presto lungo il crinale dove si aprono radure e lo sguardo spazia sulla pianura. Ecco la croce della vetta. Pausa. Foto. 

Indosso le protezioni. Abbasso la sella. Ora vado a vedere se Alvise mi ha detto il vero. Da qualche anno non giro sui sentieri del Costone, meravigliosi single track a suo tempo poco o per nulla percorsi dalle MTB,. Parrebbe che Alvise e soci si siano messi a sistemarli e pulirli. Inizio la discesa e raggiungo il crinale del Costone. E dopo? E dopo non mi sono più fermato. Che meraviglia! Una discesa tutta d’un fiato sino in paese, senza sprecare nemmeno un metro di dislivello. Bravo Alvise.

Poi arrivo a casa e dopocena, mentre ascolto della musica, riguardo i pochi scatti che ho fatto su, al Colle. Lei è li che mi guarda, la mia ruota. Mi piace, mi sembra un occhio sul mondo, un occhio che osserva e non giudica ma che fa il suo lavoro. Però non riesco a trovare lo spunto per scrivere qualcosa anche se sento che è lì sulla punta delle dita e deve solo trovare il modo di uscire. Vado in camera, una pila di libri pencolante minaccia di franare dalla comodina - che strano usare questo termine, mi sembra così desueto -. Devo fare ordine e decidere cosa tenere lì, sulla comodina, pronto per essere letto prima del sonno. Riordino e tra le mani mi resta il libro “Le Giovani Parole” di Mariangela Gualtieri. Lo apro a caso e leggo.

Si succhia
cielo e terra. Si prende
l’arcata vibrante che cade
al centro della corolla.

Si prende la più bella
gittata dal cielo universo
e si tesse si tesse la luce
con l’ombra. Il secco
con l’umido del sotto terra.
Nei fiori.
da “Le Giovani Parole” di Mariangela Gualtieri


Resto a bocca aperta, questa poesia mi sta raccontando qualcosa, la leggo e la rileggo a mezzavoce, sino a sentire rotolare fluide le parole sulla lingua, così come rotolava la mia ruota oggi nel pomeriggio. Il fiore di Mariangela è la mia ruota. Il fiore succhia e la mia ruota impasta. Ecco l’immagine che oggi avevo sotto gli occhi senza riuscire a coglierla nella sua essenza. La mia ruota gira e impasta cielo e terra. Così nasce 17#unimmaginedicepiùdimilleparole
Grazie Alvise, grazie Mariangela e grazie alla mia ruota.

17 #UNIMMAGINEDICEPIUDIMILLEPAROLE
Venerdì 7 ‎ottobre ‎2016, ‏‎15:24:52 – Colle di Ranica (726 m slm)
Il mondo oltre la ruota scorre e lei che fa? Gira, impasta cielo e terra. Brandelli d’azzurro restano impigliati tra i tasselli, mentre scendono a pigiarsi e perdersi nel verde dell’erba. Cenci di foglie e fango, raccolti con forza dal sentiero, la seguono sino a schizzare nella trasparenza dell’aria. E lei gira, instancabile impasta cielo e terra. Ora lenta, ora veloce, a volte si ferma come volesse osservare il mondo con quel suo occhio d’acciaio. Poi riparte. Sui crinali gira e, con lo sfarfallare dei raggi, intreccia la luce all’ombra. Nel fitto del bosco amalgama il secco dell’aria e l’umido suolo. E lei gira e impasta cielo e terra. Lei, la mia ruota, non è impassibile, oggi ha sorriso per tutto il tempo. Era felice.