domenica 19 ottobre 2014

#5 PARETI E RACCONTI - Le mani di Simone



QUALIDO - Simone Pedeferri racconta

Le mani di Simone si muovono nell’aria con decisione ed eleganza, gesti rapidi e precisi scanditi da pause e accelerazioni, si alternano in una danza sinuosa e imprevedibile. A volte sembra plasmino l’aria come fosse materia, altre volte che accarezzino una tela, oppure che stiano stendendo strati di colore. Le osservo, si fermano a mezz’aria, mentre le dita si muovono come stessero sfiorando la pietra, sino a quando, trovata la giusta posizione, si stringono attorno a piccoli appigli fatti di cielo e da cui iniziare la scalata. Lo sguardo, calamitato da queste mani, resta affascinato da quella esatta padronanza dello spazio che le circonda. Mi perdo a tal punto nell’ascoltare ciò che raccontano le sue mani, che a volte non seguo più la sua voce. “Scalata e arte sono due passioni totali, - afferma Simone - due mondi paralleli. Nell’arte il mio elemento ispirante è la natura, con i suoi paesaggi e lo spazio, elementi in cui mi immergo quando scalo sulle montagne di casa o nei luoghi selvaggi dell’Africa e del mondo. I colori che uso e che plasmo, arrivano proprio da qui, dalla natura che mi circondo e dalle esperienze che vivo. Le emozioni, le immagini e i momenti si stratificano, si accumulano, si coprono l’un l’altra. Quando lavoro le faccio emergere e con calma loro arrivano, si svelano. Ne ottengo fasce di emozioni che torno a sovrapporre e stratificare sulla tela. Dipingo con un segno scultoreo più che pittorico, un segno forte simile ai gesti della scalata, un segno materico come è materia la roccia su cui scalo. In parete, come in studio, la parte razionale e quella istintiva emergono e inizialmente si combattono, si studiano, si scrutano e infine si fondono sino ad entrare in armonia.” Le parole diventano quindi puro accompagnamento,  semplice punteggiatura del racconto fatto dalle sue mani, sempre pronte a narrare storie di amicizia, d’arrampicata e d’arte. Mani in grado di lasciare un segno sulla pietra e sulla tela, a sfidare il tempo.

Il cielo è terso e l’aria decisamente fredda. Oggi in Valle di Mello siamo soli, a sinistra le grandi placconate di granito paiono groppe di giganteschi animali che sonnecchiano e si crogiolano nel sole, mentre sulla destra è il regno dell’ombra che domina incontrastato e già le prime bave di ghiaccio ornano il bordo delle cascate. La, in fondo, i due mondi convergono nell’imponente Monte Disgrazia, vigile custode dell’intera Valle. “Vent’anni fa cercavamo un posto simile allo Yosemite e lo abbiamo trovato qua. –Simone si ferma sotto un grande faggio e parla tranquillo – Un posto dove alla sera si potesse stare attorno a un fuoco, bivaccare sotto i massi e partire la mattina con lo zaino in spalla per scalare tutto il giorno. All’inizio partivo da Cantù per venire qua, poi gli eventi della vita mi hanno trattenuto in questa valle. Qui ho conosciuto Monica, mia moglie, e ho invertito la rotta. Questo luogo e le sue pareti mi hanno fatto crescere e, ancora oggi, continuano a farmi crescere. L’apprendimento non finisce mai sia sui massi che sui montiri, sulle vie brevi ma soprattutto sulle big-wall, l’ambiente che amo di più

In alto, le montagne sono già spruzzate dalla prima neve. Riprendiamo il cammino immergendoci nei colori dell’autunno che ormai si stanno spegnendo. Ancora vivido è il giallo dei larici mentre le pennellate oro delle betulle, tra il verde compatto degli abeti, restituiscono brillanti raggi di sole. Oggi il Precipizio degli Asteroidi è la nostra pietra d’angolo, ai suoi piedi svoltiamo a sinistra, abbandonando la placida mulattiera di fondo valle per risalire l’antico sentiero dei Melat, che si inerpica in Val Qualido.

Saliamo zigzagando tra faggi dalle architetture uniche, le foglie crepitano sotto i piedi, ci fermiamo spesso per osservare, tra le chiome spoglie, la grande parete del Qualido che inizia a delinearsi nella sua imponenza. Ad ogni sosta il racconto di Simone, prende forma, cresce e si rinnova, le mani con movimenti ampi ed eleganti sostengono e amplificano la narrazione. A volte ci indica una linea sulla grande parete e frugando tra i ricordi ci regala frammenti della sua vita, fatta di emozioni e amicizie: “Ci sono legami che vanno oltre le difficoltà affrontate in parete e che si consolidano per sempre. Gli amici sono stati fondamentali nella mia vita, ogni salita è indissolubilmente legata al volto di un amico, in maniera profonda.”

Il bosco si fa sempre più rado e in quota cede spazio ai pascoli, la parete si mostra in tutta la sua bellezza.

Passiamo come di consueto all’Hotel Qualido, un meraviglioso posto da bivacco posto sotto un grande masso di granito, ricavato da un antico ricovero di pastori. Simone apre il cancelletto ed entra, mentre gli occhi si abituano alla penombra dice: “In venti anni ho passato i mesi in questo posto. A un buco del genere ci si affeziona per forza. Quando ho fatto Joy Division ho passato più di tre settimane qua. Era il mio campo base. Per la gran parte del tempo ci sono stato da solo, salivo e scendevo lungo le corde fisse per provare i tiri di corda, ero un bambino super selvaggio. Ogni tanto salivano gli amici a trovarmi e per salire in parete con me, a scalare.

Usciamo dall’Hotel e saliamo ai piedi della parete dove giochiamo scalando le prime lunghezze di alcune vie. Oggi l’obbiettivo non è quello di salire una linea su questa big-wall, oggi ciò che ci interessa è scalare tra le parole e fare emergere, come scultori, da questa stratificazione di emozioni e i ricordi, le forme dell’intimo legame che unisce Simone alla parete del Qualido. “Vivere il Qualido non è solo arrampicare sulla parete. Vivere il Qualido è stare in questo ambiente, accendere il fuoco la sera, mangiare, vedere l’alba, attaccare la parete, ridiscendere, cercare di fare le vie in arrampicata libera. -  e continua Simone -  per me è stato importante potere godere di questa parete in tutte le stagione per sentire dentro di me di avere vissuto un intero percorso con lei.” Si interrompe e sorride, poi lo sguardo si perde nuovamente su quell’impressionante architettura di granito:“Se torni per anni su una parete, alla fine ti accorgi che non devi dimostrare niente a nessuno. Dopo tutto un percorso vuoi solo vivere dei momenti piacevoli e quindi vai alla ricerca di quei momenti di quelle sensazioni. Le sfumature che cogli sono diverse anche se la parete è la stessa, perché nel profondo sei tu che sei cambiato.”

La giornata volge al termine e ci incamminiamo verso valle, la parete è ormai in ombra, Simone la guarda ancora per un ultima volta. Chissà a cosa pensa, chissà quanti altri ricordi tornano a galla ad ogni sguardo, chissà quanti nuovi progetti frullano in quella testa.



Simone artista, Simone alpinista



Al rientro ci fermiamo a San Martino di Valmasino e ci rifugiamo nell’ambiente caldo e accogliente del Bar Monica. Qui lavora e abita Simone con la moglie Monica. Dopo esserci scaldati ci invita a salire di sopra dove, nella mansarda, vi è una parte del suo atelier. Lui, diplomato all’accademia di Brera, in questo spazio lavora e crea. Ci parla delle opere alle pareti e poste in ogni dove, ci racconta la sua visione dell’arte e del intimo legame con la natura e la scalata. Prende dei giganteschi rotoli di carta e li distende sul pavimento, li guarda soddisfatto. Da una certa distanza risalta evidente la figura di un uomo, ma quando mi avvicino comprendo che quell’uomo non è altro che la geografia della Valmasino, compresa la Valle dei Bagni e la Val di Mello. Mi chino ancora di più e non finisco di sorprendermi nel cogliere i dettagli e di vedere disegnati uno ad uno i massi granitici che realmente si trovano nella valle, con le loro forme esatte e le linee tracciate sulle loro piccole pareti. “Questo è il disegno originale che ho fatto per l’ultimo MelloBlocco – dice soddisfatto Simone – la  manifestazione che organizziamo ormai da 10 anni e che porta nella valle migliaia di persone, un’esperienza unica nel suo genere.” Poi, mentre mi indica i dettagli del disegno, le sue parole diventano una musica di sottofondo e mi perdo nel guardare le mani di Simone che si muovono sul disegno come se stesse dipingendo, come se stesse arrampicando.



QUALIDO BIG WALL – La storia secondo Simone



In Qualido alcune vie si possono ripetere anche in giornata, ma le sue dimensioni, la difficoltà e la lunghezza di molti itinerari, che oscilla tra i 500 e 800 metri, ne fanno una big wall su cui è possibile e a volte indispensabile passare più giorni, scalando, vivendo e dormendo in parete.

I sassisti hanno aperto la strada e se “Via Paolo Fabbri 43” (1978) è stata la prima via della parete con “Il paradiso può attendere” (1982), salita in cinque giorni di scalata, Paolo Masa, Jacopo Merizzi e Antonio Boscacci hanno chiuso alla grande quel Nuovo Mattino di cui sono stati protagonisti in Valle di Mello, fatto di ricerca e avventura. Oggi la si ripete anche in libera ma “Il paradiso” resta una scalata assolutamente avventurosa e selvaggia dove ci si deve adattare alla parete, alle sue regole e non c’è nulla di preconfezionato.

Poi si deve segnare il passaggio della meteora Tarcisio Fazzini, un fuoriclasse indiscusso. Con “Pejonasa wall” e “La spada nella roccia” (1989), vie ancora oggi temute e di riferimento, ha spinto a fondo il piede sull’acceleratore delle difficoltà. Con Fazzini possiamo parlare di arrampicata moderna in cui viene introdotto l’uso sistematico dei friends e dove compaiono i primi spit, usati con parsimonia per proteggersi sulle placche.

Sempre nel 1989 inizia l’era di Paolo Vitali e Sonja Brambati, la loro prima via “Transqualidiana”, ancora oggi pochissimo ripetuta, è una pietra miliare, dove Paolo ha snobbato sistematicamente i sistemi di fessure e si è avventurato sulle placche aperte, usando pochi spit e spingendo l’arrampicata libera. Numerose sono le vie aperte dalla coppia, tutte caratterizzate da sezioni in placca raccordate da logiche linee di fessure. “Artemisia” (1991), ”Galactica”(1992) e “Melat” (1993) sono forse le più belle e sicuramente tra le più ripetute.

Sempre nel 1989 Gianni e Paolo Covelli, Silvio Fieschi e Fabio Spatola con la via “Mellodramma”, una grande linea in artificiale, danno un contributo alla storia alpinistica della parete. Altro momento significativo per la parete è quello legato alle vie aperte da Stefano Pizzagalli e Domenico Soldarini. Nel 1992 i due compiono un grande viaggio in perfetto stile big-wall, bivaccando in parete, e nasce così “Vertical Holidays”.

Poi c’è stato l’avvento dell’arrampicata libera con l’attività degli sloveni capitanati da Igor Koller e quindi di Simone. Si ripetono vecchie vie in artificiale cercando di salirle completamente in libera, si aprono nuove vie e si concatenano sezioni di vie differenti, sempre con l’ottica di salire in sola arrampicata libera. Gli sloveni iniziano nel 1995 con la prima libera de “Il paradiso” e nel 1996 aprono e liberano una breve via “Forse si, forse no” un piccolo cameo di sole tre lunghezze ma che, con il suo grado 8b, è la via più dura della parete. Nel 1999 Simone e Marco Vago si aggiudicano la prima libera de “La spada nella roccia” e sempre Simone, con Alberto Marazzi, salgono una bella e dura combinazione di 15 tiri che battezzano “Black snake”. Nel 2004 sempre Simone corona un sogno che insegue da tempo. La nuova linea è la combinazione di “Forse si, forse no” continuando sopra sino a raccordarsi ai tiri in artificiale di “Mellodramma” e finiere quindi su “Melat”. Dopo giorni e giorni passati in parete, a provare i singoli tiri, dopo 15 giorni di tentativi riesce a salire in tre giorni tutta la via completamente in libera. Nasce così “Joy Divisions” che, con i suoi 20 tiri e difficoltà sostenute sino al 8a, è la via di stampo moderno più dura di tutta la parete e probabilmente di tutta Europa e che ben figura anche a fianco delle vie moderne in libera di El Capitan, la mitica parete dello Yosemite in California.

Pubblicato su "OROBIE" - settembre 2014   

CLUSONE-ALZANO RUN

Ritratto da Cris

Oggi è stato un giorno speciale. Oggi in 2 ore 23 minuti e 15 secondi ho percorso 30 kilometri. Sin qui nulla di strano, anzi c’è già qualcosa di strano: solitamente preferisco le 42 kilometri e 195 metri. Oggi questi 30 kilometri però li dovevo percorrere e sono stati 30 kilometri dal sapore particolare. Ogni passo, ogni metro, ogni sguardo mi hanno trasportato in un viaggio nel tempo lungo oltre 20 anni. Era il 1991 quando ho iniziato a percorrere le sponde del fiume Serio. Avevo avuto il mandato di lavorare ad un progetto per verificare se e dove fosse possibile realizzare un percorso ciclopedonale da Clusone sino alle porte di Bergamo. Molti remavano contro e dicevano che erano soldi buttati e che lungo il fiume nessuno avrebbe mai voluto passeggiare e camminare. A molti sembrava impossibile e stavano a guardare ma qualcuno, per nostra fortuna, ci ha creduto, trovando le risorse necessarie per ricostruire pezzo dopo pezzo un ambiente fluviale massacrato dall’incuria e dall’abusivismo. Ormai il parco fluviale e la ciclabile sono parte integrante del paesaggio della valle, sono diventati la nuova piazza dove la gente si incontra e si ritrova. Però oggi avere l’onore di partecipare alla prima 30 km competitiva “Clusone-Alzano Run” e percorrerla con il pettorale numero 1 mi ha emozionato. Mentre correvo pensavo ai colleghi con cui ho lavorato, agli amministratori e ai politici che han fatto loro l’idea e hanno cercato i finanziamenti. Mentre correvo sotto gli occhi si srotolavano tutte quelle tavole ornate da linee colorate e retini, legende e schemi. Mentre correvo riaprivo ad uno ad uno i faldoni dei progetti in cui si ridisegnava lo spazio che oggi non è più prigioniero della carta ma è diventato reale: un corridoio verde che abbraccia il fiume e si insinua nel tessuto urbanizzato, un nastro di ghiaia e asfalto che mi ha accolto e si è lasciato percorrere per 30 kilometri. La cosa più difficile di questa corsa, oggi, è stata quella di comprimere i ricordi in 2 ore e qualche manciata di minuti.