mercoledì 26 ottobre 2016

14 #PICCOLE STORIE

SCRIVERE E' UN PIACERE – Un luogo che mi è caro

LA CUCINA D’INVERNO. Non vi voglio parlare della mia cucina d’oggi dove, nelle sere d’inverno, il camino è acceso e dopocena ognuno si trova il suo angolo per fare ciò che più gli piace. Scrivere, chiacchierare, leggere o anche non fare nulla e trascorrere il tempo a sonnecchiare o ad osservare il colore delle braci e il guizzare della fiamma.
Ho già detto troppo dell’oggi. “Un luogo che mi è caro” di cui voglio scrivere se ne sta invece in un ieri remoto. E non è la nostalgia che mi fa tornare a quello spazio, e nemmeno la malinconia che possono suscitare i ricordi d’infanzia, ma ciò che mi spinge a scrivere di quel luogo è la ferma consapevolezza che in quel minuscolo locale mi sono formato, sono cresciuto e sono arrivato ad essere l’uomo di oggi, vivendo nel flusso di un continuo presente.
Ho chiacchierato già troppo, ora veniamo al dunque.
D’inverno l’unico ambiente riscaldato della casa era la cucina, uno stanza lunga e stretta affacciata sul portico, a memoria direi tre metri per cinque, ma ai miei occhi da bimbo era immenso. Lì la mamma lavorava alla macchina da cucire, lì mia sorella ed io facevamo i compiti e giocavamo, lì si cucinava, si mangiava, si scaldava l’acqua per lavarsi, si asciugavano i panni e molto altro ancora. La stufa, ovvero la cucina economica, se ne stava quasi in fondo sul lato destro, attorno a lei ruotava la vita della famiglia intera. A noi piccoli spettava l’incombenza di andare a prendere la legna e tenerla carica.
Quindi, riepilogando. Si entrava dalla porta a vetri, unica fonte di luce dello spazio, e sulla destra appoggiata al muro c’era la sua tagliacuce su cui la mamma era costantemente al lavoro. Sulle piastrelle, davanti a lei, con una ventosa era appeso un piccolo specchio, di quelli col bordino di plastica colorata acquistato al mercato del venerdì. Lo specchio serviva alla mamma per potere controllare, con un semplice sguardo, tutto lo spazio e tenere d’occhio che cosa combinassimo, senza dovere sospendere il lavoro. Poi c’era il tavolo di formica gialla appoggiato al muro, per la cena lo spostavamo verso il centro, anche le sedie erano di formica gialla. Verso il fondo si trovava la stufa sempre accesa. La “scolderena” era sempre piena d’acqua calda e il tubo smaltato di bianco saliva diritto verso il soffitto, per poi fare una curva a gomito e attraversare una parte della cucina, sino ad entrare nel muro dove c’era la canna fumaria. Nel tratto verticale del tubo ci stava un marchingegno, una specie di corona, che permetteva di bloccare delle stecche di ferro in orizzontale, a formare una raggiera su cui stendere i panni da fare asciugare. Nell’angolo ci stava una specie di cassettone per la legna. Sulla piccola parete opposta all’ingresso c’era una finestrella, coperta da una tenda pesante, forava un muro di oltre un metro di spessore e si collegava alla cantina. Era posta in alto e non era accessibile a noi bambini, forse ricordo male ma lì in una “moscarola” si teneva il cibo che doveva stare al fresco. Sul lato sinistro, dal fondo verso l’ingresso, nell’ordine c’erano il lavandino e il fornello, con sopra lo scolapiatti e due armadietti smaltati di bianco, poi il frigorifero e infine la porta per andare in sala: il regno del gelo. In sala c’erano i mobili belli, con il divano e la TV, in sala ci si stava d’estate e, per quanto mi ricordo, solo nei giorni di festa. Da qualche parte, non rammento più dove con esattezza c’era un piccolo cesto rettangolare, fatto con striscioline intrecciate di plastica bianca e verde, con quattro gambette bianche e il suo bel coperchio, anch’esso colorato, in cui c’erano tutti i nostri giochi. La vita era in cucina. Per andare nelle camere e in bagno si usciva nel portico e si saliva la scala esterna, la zona notte era al piano di sopra e non era riscaldata.
La cucina d’inverno era bellissima, lì c’era tutto quello che io bambino potevo desiderare. Tornavo da scuola e mi aspettava la mamma con le patatine fritte. Poi c’erano le maglie di tutte le squadre di calcio, mucchi e mucchi, sulle sedie e sul tavolo, a cui tagliare i “codini”, ma questa è un’altra storia. Quindi c’erano tante pezze e panni colorati e rocchetti di filo di tutte le misure e colori con cui giocare. E poi la legna con cui costruire città intere e piste infinite per le biglie e le macchinine. Quando rientravamo dai giochi in cortile, che non conoscevano soste ne con il gelo ne con la neve, con i piedi gelidi e fradici e le mani rosse e con i geloni, ci si spogliava e, aperto lo sportello del forno della stufa, ci si scaldava i piedi appoggiandoli al suo imbocco. Dei compiti non ricordo quasi nulla però dell’Atlante De Agostini mi ricordo benissimo e ancora oggi ho l’esatta memoria dei viaggi che mi inventavo sopra gli oceani e tra i continenti, alla scoperta del mondo. Giungeva quindi l’ora della “Tv dei Ragazzi” e spuntava per incanto la televisione, ma di questa magia forse ne scriverò un’altra volta. Poi arrivava un momento anzi “il momento” in cui la mamma diceva “Bambini! È ora!” e noi sapevamo esattamente cosa voleva dire. Lei continuava a lavorare e noi iniziavamo a sistemare. Io mi ricordo che sistemavo benissimo, sistemavo tutto ed ero bravissimo, forse mia mamma potrebbe ridire qualcosa e mia sorella, se interpellata nel merito, avrebbe sicuramente ricordi ben diversi. Poi, sempre sotto quel suo sguardo riflesso nel piccolo specchio appeso al muro, seguivamo le sue indicazioni per preparare la cena. Infine si alzava e, dopo avere impacchettato in bell’ordine le maglie dei calciatori, cucinava sulla stufa e sui fornelli mentre ci aiutava ad apparecchiare la tavola. D’inverno papà tornava dal lavoro quando era già buio, dopo un lungo viaggio in corriera, entrava in casa e ci si sedeva a tavola per la cena. Non ricordo di cosa si parlasse ma ricordo che guardavamo Il Bernacca, Il Telegiornale e Il Carosello, per poi prenderci, dal forno della stufa, il nostro mattone bello caldo ed avvolto in un panno, coprirci bene, uscire e salire al piano di sopra, per tuffarci, in compagnia del nostro mattone, tra le lenzuola di flanella, sotto una trapunta che pesava una cifra ma che tratteneva bene il caldo, come un igloo al polo nord.

E così è stato sino a quando iniziò il cantiere in cui lavorammo tutti in famiglia  Rubammo un piccolo spazio alla cantina e fu realizzata una scala interna e infine tutti gli spazi della casa vennero dotati di un impianto di riscaldamento. Lavorammo tutta estate e i primi mesi della scuola. Iniziai così la quarta elementare.

sabato 22 ottobre 2016

#21 UN IMMAGINE DICE PIU DI MILLE PAROLE

Sabato 15 ‎ottobre ‎2016, ‏‎14:19:32 – Finale Ligure – Bric Pianarella – Via “Menti perdute”

“Meraviglia dello stare bene
… e si sta leggeri come capre sulla rupe
della gioia.”
Mariangela Gualtieri


E poi arriva il momento in cui parti. Stacchi da tutto e da tutti. Butti lo zaino e la sacca nel furgone, passi a prendere un amico, e sai che per tre giorni le tue occupazioni saranno poche ed essenziali: mangiare, dormire e arrampicare, non ti vuoi preoccupare d’altro, non ti dovrai preoccupare d’altro. Non importa dove vai, purché ci sia una “rupe” su cui salire e tutto intorno il blu del cielo, il verde della macchia e in lontananza il luccichio del mare. La meraviglia ti circonda e tu ti immergi, seguendone il ritmo, assecondandone gli umori. Risvegli lenti, senza l’urgenza dei lunghi avvicinamenti e l’incombere delle grandi pareti. Brevi camminate nel fitto della lecceta e poi ha inizio il gioco. Gesti consueti, familiari, ripetuti migliaia di volte. Quando avrai staccato i piedi da terra, tutto dovrà essere al suo posto, in ordine. Ripeti il rituale conosciuto e come ogni volta presti attenzione. Mettere il casco. Indossare l’imbrago e fissarlo per bene. Agganciare le coppie sul porta-materiale, sei a destra e sei a sinistra. Appendere il discensore e i moschettoni a ghiera, con i cordini della sosta, sulla sinistra. La macchina fotografica la metti sulla destra e le fettucce a tracollo. Legarsi in vita il cordino con il sacchetto della magnesite. Svolgere le due mezze-corde e legarsi i due capi all’imbrago. Controllare che i nodi siano giusti. Fissare le scarpe con un piccolo moschettone a ghiera all’anello posteriore dell’imbrago. Pulire la suola delle scarpette da scalata, calzarle e chiudere bene i velcri. Infilare le mani nel sacchetto della magnesite e alzare lo sguardo alla parete. Dire al socio “Parto!”. Concatenare appigli e appoggi, cercando di essere leggero, per ritrovarsi su una piccola cengia nel centro della parete. Attendere il socio che, arrivato in sosta, riparte verso l’alto, alternandosi al comando della cordata. Godere del tempo che passa lento e di quella gioia sottile che senti vibrare mentre la corda scorre tra le mani e lo sguardo ingordo si nutre di tutto quanto ti sta attorno. Concentrato su quel tuo procedere verticale, non smetti di cogliere i piccoli dettagli e gli ampi panorami che solo da lassù puoi godere. Arrampicare è tutto questo. Arrampicare, sino a quando la parete non sfuma nei boschi dell’altipiano. Arrampicare, sino a quando il corpo spossato esige il riposo. Arrampicare, sino a quando non giunge la sera. Arrampicare, per ritrovarsi stanchi a mangiare della farinata accompagnata da un buon bicchiere di vino, mentre una luna piena e luminosa si alza nel cielo, illuminando a giorno le rupi e accompagnandoti nel sonno.

giovedì 20 ottobre 2016

#20 UN IMMAGINE DICE PIU DI MILLE PAROLE

Lunedì 17 ‎ottobre ‎2016, ‏‎14:58:22 – Finale Ligure – Rocca di Corno – Via “Rombo di tuono”


Alzo lo sguardo, lui è lì! Se ne sta piantato nel bel mezzo degli strapiombi. La sua presenza un poco mi sorprende e mi inquieta. Incastrato tra due lame di roccia si aggrappa e si protende. Attorno i gialli e gli ocra spruzzano il bianco del cavo di quest’onda gigantesca e immobile. Un mondo pietrificato e capovolto incombe su di me. La corda, lenta, scorre tra le mani. Curioso sollevo nuovamente lo sguardo sino a slogarmi il collo: è ancora lì abbarbicato a quel soffitto. Un’ostinata presenza a rivendicare il proprio diritto di stare dove meglio gli pare, oltre ogni logica, lottando sospeso nel vuoto di questo gigantesco antro. Il corpo ritorto si adatta alle forme della pietra, quasi a strisciare verso l’alto, verso la luce, come a fuggire dall’aridità minerale di quei recessi. Riabbasso lo sguardo. La corda è immobile tra le mani. E mi ritrovo a scandire a mezza voce: “Ma qualcuno mi vuole spiegare cosa ci fa proprio lì un fico? Come può vivere in questo deserto spoglio e rovescio quella macchia di linfa e colore?” Nel mentre c’è qualcuno che grida la in alto, e vi posso giurare che non è il fico: “Allora! Me la dai o no questa corda?” Sorridendo do corda.

#19 UN IMMAGINE DICE PIU DI MILLE PAROLE


Domenica 9 ‎ottobre ‎2016, ‏‎13:06:48 – Carnit (Olera) -


“Dare”. Ogni volta è una sfida. Ogni volta è una provocazione. E tutte le volte che entro in cantina lei è lì, la vedo di taglio, sopra un piano di legno, appoggiata ai bancali contro il muro. Quieta, attende che io la prenda per andare a scorrazzare nei boschi dietro casa. Ma passano mesi, entro e esco per fare altro, per prendere il miele o per depositare le patate, per scegliere una bottiglia di vino o per spillare l’olio, per lasciare un formaggio a stagionare o per appendere un salame. Non passa volta che non mi fermi, anche solo un attimo, a darle uno sguardo alle sue strane geometrie impertinenti, a quelle forme massicce e nel contempo espressioni di movimento. Poi arriva l’attimo e c’è quella volta che apro la porta della cantina e lei sa che è giunto il momento. Deciso la sollevo e ne assaporo tutto il peso, la appoggio a terra e mi restituisce un senso di stabilità. Lei è sempre pronta per ogni “sfida”, sono io che, anno dopo anno, mi presento un poco più arrugginito. Mentre esco in cortile, ogni volta, mi torna in mente la notte in cui Andrea mi disse: “Io non la uso, prendila tu!” e ci ritrovammo al buio, sotto la pioggia, ad infilarla dentro la Panda. Ogni volta che la porto a spasso, la “Dare”, mi da un sacco di soddisfazioni e sono sempre un poco imbarazzato mentre un senso di gratitudine mi coglie al termine di ogni discesa. Grazie, ti aspettiamo per scorrazzare insieme nei colori dell’autunno.

lunedì 10 ottobre 2016

#18 UN'IMMAGINE DICE PIU' DI MILLE PAROLE

Domenica 9 ‎ottobre ‎2016, ‏‎11:46:56 – Valle di Prato Canino
“Nell’anno del Signore 1392, con il riferimento topografico di prato Canino o Piz Canino, si definisce il confine est del Comune di Ponteranica con i Comuni di Ranica e Nese.”


Fermati. Ascolta. Svuota le orecchie dal rumore della velocità: dell’aria che sibila nel casco, dei pneumatici che mordono la terra, della catena che sferraglia, degli ammortizzatori che lavorano, dei rami secchi che si spezzano sotto le ruote. Fermati. Oltre le chiome il cielo è grigio e promette acqua, in alto le nubi avvolgono le creste del Canto. Sotto i castagni, la penombra odora di una pioggia che sarà. Annusa l’aria e alza lo sguardo seguendo la linea dei tronchi protesi in uno slancio immobile, esseri affamati d’ossigeno e luce. Ora come allora, immerso in questo mondo vegetale che pulsa e respira, il tempo e il suo scorrere perde ogni significato. Immobile, ascolta. Il tuo respiro si è placato e il tuo battito ha ritrovato la quiete. Come un recipiente vuoto inizia a colmarti di suoni. I fischi dei tordi che, inseguendo l’estate, ora riposano prima del grande volo, verso il caldo africano. Lo stormire delle foglie rimestate dalla mano del vento. Ed è allora che senti il suono di una strana pioggia, brevi raffiche di colpi secchi sul tappeto di foglie e di rovi, ora vicine, ora lontane. Dalla memoria riemerge una voce, un ricordo. Quando piccino accompagnavi tuo nonno per i boschi sopra casa, lui si fermava e ti diceva: “Scólta! I cróda i castègne.” Chissà cosa ha pensato il biker che arrivando in fondo alla discesa ti ha trovato lì, fermo e immobile nel fitto del bosco, in parte alla bicicletta abbandonata a terra. Un cenno di saluto ed è sfrecciato via. Tutto è tornato immobile, il ricordo è ancora sospeso a mezz’aria. Per un attimo sei restato ancora immobile, gustando i suoni del bosco e della voce che fu. Infine hai guardato la bici, l’hai presa e ti sei rimesso a pedalare, in equilibrio suii confini d’oriente tra Ponteranica e Ranica, lungo la valle di Prato Canino.

sabato 8 ottobre 2016

13 #PICCOLE STORIE

Venerdì 7 ottobre 2016 - Oggi. Oggi vado a lavorare in bici. Seguo la ciclabile nell’aria fredda del mattino. Cerco di non correre per non sudare ed evitare di arrivare in ufficio madido e puzzolente. Le colleghe non gradirebbero. Lo zaino è carico: le catene per evitare che la rubino, un cambio per il rientro, gli attrezzi per le riparazioni, una camera e la pompa per eventuali forature, le protezioni per ginocchia e gomiti da usare in discesa. Il venerdì la giornata lavorativa è breve. Ore 14 si stacca. Mi cambio e recupero la bici. Le vie del centro sono intasate di bancarelle e gente che passeggia, beve e mangia. Mi allontano pedalando lentamente, godendomi il profilo delle mura e della città alta che si stagliano contro un cielo azzurro autunno. Imbocco la Greenway del Morla, che nome pomposo e assurdo per una ciclabile. Nella cintura verde che abbraccia le mura venete della città vecchia, qualcuno corre, qualcuno passeggia con il cane, le acque della Morla scorrono tra i salici e i pioppi. La salita della Maresana si avvicina inesorabile. Come al solito sarà una bella lotta ma oggi l’aria è fresca e mi sento bene. Si inizia. Le rampe si susseguono inesorabili, il sudore cola sul volto e lungo la schiena. Il respiro è regolare e le gambe spingono senza lamentarsi troppo. La ruota gira sotto i miei occhi come fosse una preghiera tibetana, un mantra per il mio sguardo che la fissa, come fosse lei, la ruota, a trascinarmi i questa salita. Le gocce di sudore si staccano dal volto e bagnano il telaio. Diamine! Sono già in Maresana. Una breve pausa alla fontanella e riparto, inseguo la mia ruota. Ultimo strappo e poi la strada spiana verso la Croce dei Morti. Wow! Esulto e qualcuno, oltre una cancellata, mi risponde simpaticamente. Mi fermo e così conosco Alvise, ma di lui parlerò un’altra volta. Continuo e la mia ruota è stufa di asfalto e imbocca il sentiero che sale al Colle di Ranica. Pedalare è un piacere e mi ritrovo ben presto lungo il crinale dove si aprono radure e lo sguardo spazia sulla pianura. Ecco la croce della vetta. Pausa. Foto. 

Indosso le protezioni. Abbasso la sella. Ora vado a vedere se Alvise mi ha detto il vero. Da qualche anno non giro sui sentieri del Costone, meravigliosi single track a suo tempo poco o per nulla percorsi dalle MTB,. Parrebbe che Alvise e soci si siano messi a sistemarli e pulirli. Inizio la discesa e raggiungo il crinale del Costone. E dopo? E dopo non mi sono più fermato. Che meraviglia! Una discesa tutta d’un fiato sino in paese, senza sprecare nemmeno un metro di dislivello. Bravo Alvise.

Poi arrivo a casa e dopocena, mentre ascolto della musica, riguardo i pochi scatti che ho fatto su, al Colle. Lei è li che mi guarda, la mia ruota. Mi piace, mi sembra un occhio sul mondo, un occhio che osserva e non giudica ma che fa il suo lavoro. Però non riesco a trovare lo spunto per scrivere qualcosa anche se sento che è lì sulla punta delle dita e deve solo trovare il modo di uscire. Vado in camera, una pila di libri pencolante minaccia di franare dalla comodina - che strano usare questo termine, mi sembra così desueto -. Devo fare ordine e decidere cosa tenere lì, sulla comodina, pronto per essere letto prima del sonno. Riordino e tra le mani mi resta il libro “Le Giovani Parole” di Mariangela Gualtieri. Lo apro a caso e leggo.

Si succhia
cielo e terra. Si prende
l’arcata vibrante che cade
al centro della corolla.

Si prende la più bella
gittata dal cielo universo
e si tesse si tesse la luce
con l’ombra. Il secco
con l’umido del sotto terra.
Nei fiori.
da “Le Giovani Parole” di Mariangela Gualtieri


Resto a bocca aperta, questa poesia mi sta raccontando qualcosa, la leggo e la rileggo a mezzavoce, sino a sentire rotolare fluide le parole sulla lingua, così come rotolava la mia ruota oggi nel pomeriggio. Il fiore di Mariangela è la mia ruota. Il fiore succhia e la mia ruota impasta. Ecco l’immagine che oggi avevo sotto gli occhi senza riuscire a coglierla nella sua essenza. La mia ruota gira e impasta cielo e terra. Così nasce 17#unimmaginedicepiùdimilleparole
Grazie Alvise, grazie Mariangela e grazie alla mia ruota.

17 #UNIMMAGINEDICEPIUDIMILLEPAROLE
Venerdì 7 ‎ottobre ‎2016, ‏‎15:24:52 – Colle di Ranica (726 m slm)
Il mondo oltre la ruota scorre e lei che fa? Gira, impasta cielo e terra. Brandelli d’azzurro restano impigliati tra i tasselli, mentre scendono a pigiarsi e perdersi nel verde dell’erba. Cenci di foglie e fango, raccolti con forza dal sentiero, la seguono sino a schizzare nella trasparenza dell’aria. E lei gira, instancabile impasta cielo e terra. Ora lenta, ora veloce, a volte si ferma come volesse osservare il mondo con quel suo occhio d’acciaio. Poi riparte. Sui crinali gira e, con lo sfarfallare dei raggi, intreccia la luce all’ombra. Nel fitto del bosco amalgama il secco dell’aria e l’umido suolo. E lei gira e impasta cielo e terra. Lei, la mia ruota, non è impassibile, oggi ha sorriso per tutto il tempo. Era felice.

venerdì 7 ottobre 2016

#17 UN'IMMAGINE DICE PIU' DI MILLE PAROLE

Venerdì 7 ‎ottobre ‎2016, ‏‎15:24:52 – Colle di Ranica (726 m slm)

Il mondo oltre la ruota scorre e lei che fa? Gira, impasta cielo e terra. Brandelli d’azzurro restano impigliati tra i tasselli, mentre scendono a pigiarsi e perdersi nel verde dell’erba. Cenci di foglie e fango, raccolti con forza dal sentiero, la seguono sino a schizzare nella trasparenza dell’aria. E lei gira, instancabile impasta cielo e terra. Ora lenta, ora veloce, a volte si ferma come volesse osservare il mondo con quel suo occhio d’acciaio. Poi riparte. Sui crinali gira e, con lo sfarfallare dei raggi, intreccia la luce all’ombra. Nel fitto del bosco amalgama il secco dell’aria e l’umido suolo. E lei gira e impasta cielo e terra. Lei, la mia ruota, non è impassibile, oggi ha sorriso per tutto il tempo. Era felice.

domenica 2 ottobre 2016

#16 UN'IMMAGINE DICE PIU' DI MILLE PAROLE

Giovedì 29 ‎settembre ‎2016, ‏‎09:42:18 – Presolana di Castione – Via “A Federico” (avvicinamento)

“volevo tenere per te
la luce di quando fa giorno
volevo che fosse per te
anche l’attesa che diventa ritorno”
- Gianmaria Testa -


A Federico. Ho atteso che arrivasse il sole. Ho aspettato di sentire il suo calore sulla roccia. Ho lasciato che il tempo scorresse. Ora le mani si alternano, una davanti all’altra, lungo la fessura della “Mezzaluna” e i piedi spingono sul grigio e compatto calcare. Procedo, la corda scorre senza intoppi nel gri-gri, ad ogni chiodo passo la coppia di moschettoni, uno nel chiodo e nell’altro ci infilo la corda. Dove la fessura si impenna e la parete si fa verticale, posiziono un friend, mi fermo e controllo che tutto il materiale sia in ordine: nodi, moschettoni e ghiere. Da lì, sospeso nel vuoto, osservo: il lasco di corda che penzola nel vuoto, la corda che dal mio imbrago si allontana inanellando tutte le coppie sino alla sosta - dove il rosso del mio zaino brilla nel sole – oltre, i ghiaioni e le creste, scendono verso le malghe e più giù sprofondano tra le nubi che ingolfano la Valle dei Mulini. Oggi sarà lunga, una lunga meravigliosa giornata d’autunno, in cui il piacere della scalata, miscelato al silenzio, al vuoto e a questi grandi spazi, s’intreccia ai ricordi e ai pensieri. Questa mattina, partito da casa all’alba, sono passato in piazza Italia di Alzano. Solitamente percorro il vecchio provinciale ma oggi c’era un motivo preciso che mi ha portato a cambiare strada. Poco prima della Piazza, sulla destra, dove ore c’è la sede della CGIL, un tempo c’era la macelleria della Famiglia Madonna, Federico era uno dei figli. Ennio e Silvio mi hanno regalato qualche loro ricordo, piccoli e preziosi frammenti di vita di un ragazzo esuberante e travolto dalla passione per l’arrampicata e l’avventura. Purtroppo Federico, non appena diciottenne, muore durante una discesa in canoa sul Mallero. Ennio nell’agosto dell’80, in compagnia di Sandro e Gigi, sulla parete sud della Presolana di Castione, apre la via “A Federico” in ricordo di quell’amico “… giovane, forte e rivoluzionario, in aperto contrasto con gli ambienti conservatori di quell’alpinismo classico …”. Ed ora eccomi qua a ripercorrere questa linea e le mille storie che vi sono intrecciate, a rimettere ordine tra il materiale sull’imbragatura e tra i mille pensieri che frullano per la testa. Le nebbie salgono e scendono, il sole appare e scompare, la corda scorre nel gri-gri e il tempo passa mentre arrampico lungo la parete e tra i ricordi.