venerdì 2 gennaio 2015

#11 UN'IMMAGINE DICE PIU' DI MILLE PAROLE

- Venerdì 2 gennaio 2015 - ore 09:56:43 – Campuana – Sorisole -

Da anni non ero così fuori forma. Da mesi non arrampico. Mi manca un sacco la scalata: la roccia verticale, il vuoto, il suono secco del moschettone che scatta, la paura di volare, i polpastrelli spellati, l’acido lattico che ti gonfia gli avambracci, la puzza delle scarpette quando te le togli e tutte quelle mille cose inutili che segnano i momenti dell’arrampicata. In questi mesi la sbarra, sospesa la in alto nel corridoio di casa, nemmeno una trazione mi ha concesso. A dire la verità non ci ho provato mai, anche in questi giorni mi limito a guardarla ogni volta che ci passo sotto, lei mi osserva, ne sono certo, anche con una certa aria di sfida. A volte passo e faccio finta di non guardarla, con la coda dell’occhio colgo il suo sguardo impertinente, quasi di sufficienza. Allora faccio spalluce e vado oltre, ripromettendomi che la prossima volta glielo faccio vedere io a quella sfrontata.
Durante queste vacanze mi sono ripromesso di riprendermi il tempo, quello mio, quello solo per me, quello per me da solo. Solo senza mediazione alcuna, senza motori ad aiutarmi, riducendo gli spostamenti al minimo. A volte mi faccio dei trip sulla mia impronta ecologica e la decrescita felice e la consapevolezza del nostro impatto sul pianeta, quindi per mettermi il cuore in pace, cerco di fare almeno dell’arrampicata a KM Zero. Oggi per la terza volta, in queste vacanze, sono partito da casa a piedi, ho imboccato la mulattiera e mi sono immerso nel gelo della valletta, quella che sale al colle e che mai prende il sole durante l’inverno. La neve gelata crocchia sotto i piedi, l’aria ghiacciata morde la pelle del viso, nuvole di vapore sono il mio respiro. Il colle è al sole e salgo lungo il crinale scaldato dai sui raggi, su sino ai roccoli di Campuana. Finalmente la vedo. La falesia è una vela bianca di roccia che emerge tra i boschi spogli della valle, dominata dalla croce immensa del Canto Alto e sullo sfondo, ad occidente, il Monte Rosa e la candida catena alpina. Prima di reimmergermi nell’ombra del bosco, che conserva ancora un tappeto di neve, mi volto verso la pianura. La bellezza è lì da cogliere: le Luvride, i Colli di Bergamo e San Vigilio, le foschie padane e violacea, ultimo sipario, la catena appenninica. Con queste immagini a colmare lo sguardo scendo sino alla sorgente e da lì risalgo ai piedi della vela rocciosa, ornata da canne d’organo e strapiombi. Sono solo. Adoro essere solo in questo luogo, protetto dagli sguardi e dal freddo vento del nord. Anche oggi si scala in maglietta. I movimenti oggi sono più fluidi e gli appigli, che solo un settimana fa sembravano piccini, ora appaiono più generosi. Riprendersi il tempo e prendersi cura delle proprie passioni, dei propri desideri e dei mille sogni segreti custoditi tra i legni profumati dell’animo. Un gran bel regalo per ricominciare un nuovo anno.

Con calma preparo lo zaino e rientro a casa, oltre il crinale della Val Braghizza. Una volta a casa appoggio lo zaino sulla panca e vado in corridoio. La osservo e senza dire nulla allungo le braccia, stringo le mani attorno all’acciaio, sollevo i piedi e resto così, appeso, dondolando leggermente. Lei mi saluta e senza dire una parola mi dice: ben tornato. Ed io sorrido.

DRITTI AL CUORE

OL SIMÀL - DRITTI AL CUORE

Dritti al cuore. Proprio così, oggi andiamo dritti al cuore delle Orobie. Senza soste, senza passare dai rifugi, senza percorrere sentieri battuti. In un unico balzo saliremo da Valbondione a “Ol Simàl”, un colle posto a 2712 metri di quota ovvero il punto più alto del popolare “Sentiero delle Orobie”. Questo passaggio si affronta, di solito,  nella quarta tappa del trekking, quella che collega i rifugi “Brunone” e “Coca”, la più impegnativa, riservata ad escursionisti esperti, in grado di muoversi con sicurezza lungo sentieri scoscesi e attrezzati con catene, in cui la presenza di vedrette e canaloni innevati obbliga all’utilizzo di ramponi e piccozza.
Quando si desidera andare a fare visita ai giganti delle Orobie e godere dello spettacolo di queste cime che sfiorano il cielo oltre quota 3000, una volta giunti alla testa della Valle Seriana, ci sono due diversi itinerari. Il primo parte da Fiumenero, da lì si raggiungono le pendici del Pizzo Redorta e della Punta Scais, dopo avere percorso il ben segnalato sentiero che risale l’intera valle e i ripidi pendii finali, sostando al Rifugio Baroni al Brunone. Il secondo parte da Valbondione e all’arrivo consente di andarsi a specchiare nel laghetto di Coca e ammirare l’immagine riflessa del Pizzo Coca, la cima più alta di tutte le Orobie; quindi è possibile sostare e pernottare al Rifugio Mario Merelli al Coca da cui  i più preparati potranno salire alla bocchetta dei Camosci e da lì, lungo la via normale, sino alla vetta.
Oltre a questi due frequentati accessi verso le alte cime, ne esiste un terzo più selvaggio e meno conosciuto. Percorrendo la strada di fondovalle, tra Fiumenero e Valbondione, pochi immaginano che sui ripidi versanti, alle spalle delle frazioni di Gavazzo e dei Dossi, possa esistere un tracciato di grande interesse paesaggistico e in connessione con la rete sentieristica presente in quota. Su questo percorso la montagna custodisce gelosamente luoghi unici, terrazze affacciate sulla valle, in cui l’uomo ha lasciato un segno del suo passaggio e  la solitudine regna sovrana.
Oggi quindi puntiamo dritti al cuore delle Orobie, oggi in un balzo saliremo sino a “Ol Simàl”.
Il cammino sarà lungo e faticoso, per questo si consiglia una partenza mattutina quando il fondovalle è ancora avvolto nell’ombra. Prima di entrare nel paese di Valbondione, si parcheggia sulla sinistra, nel piazzale sterrato posto nei pressi del deposito dei bus di linea, qui ha inizio il sentiero 331. Si risale una bella mulattiera nella frescura di un bosco di faggi e in meno di venti minuti si giunge in località Salvasecca, un piccolo pianoro sostenuto da una barra rocciosa, da cui si domina il paese di Valbondione. Le vecchie cascine sono state recuperate e ora ospitano un agriturismo, con annessa fattoria didattica che offre interessanti proposte di soggiorno. Si prosegue oltre, sino a sbucare su una strada sterrata che ha malamente cancellato il tracciato storico della mulattiera che saliva sino alle Stalle di Redorta. Si percorre lo sterrato sino ad attraversare la valle  della Foga le cui acque precipitano in una bella cascata. Prima di giungere al termine della carrareccia sulla destra si stacca il sentiero da seguire per raggiungere la nostra meta. Anche se siamo solo all’inizio di un lungo cammino, vale la pena fare una deviazione sino ai prati della Stalle di Redorta, letteralmente sospesi sull’alta Valle Seriana e punteggiati da baite sino al limitare del bosco. Tornati sui nostri passi, saliamo con decisione lungo il sentiero seguendo sempre il segnavia CAI 331. A tratti si costeggiano le condotte forzate che alimentano la centrale dei Dossi,  poi si guadagna quota velocemente sino sbucare oltre il bosco, raggiungendo la località Spiazzi. Siamo a quota 1680 e un dosso pianeggiante si protende sulla valle, ospitando i ruderi di due edifici e un brutto traliccio con dei ripetitori, che nulla toglie però alla bellezza del panorama. Di fronte si apre la conca di Lizzola dominata dalla chiesetta della Manina e dalla lunga dorsale del monte Sasna. Sul fondovalle, incastrato tra ripidi versanti boscosi, il fiume Serio serpeggia sinuoso, come se giocasse con i lunghi rettilinei d’asfalto della strada provinciale. Mancano oltre mille metri di dislivello per raggiungere “Ol Simàl” e quindi ci rimettiamo in cammino. Risaliamo i pascoli con una lunga diagonale verso destra, sino ai pressi di una singolare struttura circolare, edificata sopra una parete rocciosa. Ai suoi piedi,  quattro cavità artificiali raccolgono tutte le acque provenienti dalla gallerie sotterranee che intercettano tutte le valli che incidono i versanti compresi tra i rifugi Redorta  e Coca. Questa località è conosciuta come Pozzo ENEL e, vicino, si intercetta il sentiero della traversata bassa che unisce i due rifugi. Il pensiero che l’intera montagna sia stata forata per raccogliere le acque da utilizzare per la produzione di energia idroelettrica, ogni volta mi lascia stupefatto. Mentre cammino mi ritrovo ad immaginare quel labirinto sotterraneo in cui il buio e il gorgogliare dell’acqua sono i compagni del suono prodotto dai miei passi sulla pietra, in un improbabile trekking onirico. Mi riprendo dai pensieri mentre, seguendo il segnavia CAI 334, salgo la scalinata che taglia la roccia sino al pozzo. Ora la traccia si snoda evidente tra pascoli e ghiaioni, il suono dell’acqua che scorre in mille rivoli e torrentelli è l’unica compagnia che possiamo avere nella meravigliosa solitudine di questi luoghi. È da oltre tre ore che camminiamo e ormai siamo in quota. Qui l’aria è più fresca, il cielo terso e i panorami profondi. Il tempo scorre e il dislivello macinato aumenta, con costanza si sale senza esitazioni, verso la prossima sosta che faremo in un luogo da cui ci si può solo lasciare incantare.


Appena oltre un ripido tratto di sentiero,  si doppia un crinale e ci ritroviamo a quota 2320 metri. Come per incanto, non nel fondo di una conca o nel mezzo di una valle, ma proprio lì sul dosso, sospeso tra i monti, si apre un piccolo calice d’acqua dalle forme perfette. Limpido occhio della terra spalancato verso il cielo, che invita a prendersi una pausa per passeggiare lungo il suo limite e osservare il grandioso paesaggio riflesso, le cui forme si moltiplicano come fosse un caleidoscopio naturale. Protrarre la sosta sulle sponde del lago di Avert è naturale, non solo per recuperare le forze e prepararsi al balzo finale, ma soprattutto per godere il più a lungo possibile dello spettacolo che si dispiega davanti ai nostri occhi e, lentamente,  prendere consapevolezza che si sta attraversando la soglia di un luogo magico che ci porterà dritti al cuore.
Con qualche esitazione si riparte, anche se lo sguardo continua a cercare questo specchio liquido spalancato sul fianco della montagna e sospeso sulla valle. Si percepisce chiaramente l’energia emanata dalla montagna, si respira un’atmosfera rarefatta e selvaggia. La fatica inizia a farsi sentire, il sentiero si inerpica tra pascoli magri, diventando una traccia labile tra rocce rossastre e instabili ghiaioni. Ci troviamo a percorrere la testata della Valle Antica, un nome evocativo che ben si addice a questi luoghi spogli e primordiali in cui si avverte la potenza della natura, la forza della terra. Ben presto si incrocia il Sentiero delle Orobie, proveniente dalla Vedretta dei Secreti, altro toponimo su cui fantasticare, e si affronta l’ultimo strappo che porta a “Ol Simàl”.
Sei ore di cammino, millenovecento metri di dislivello, ed eccoci giunti dritti nel cuore delle Orobie. Non servono parole, basta il silenzio di questi luoghi a raccontare ciò che si prova: emozioni e pensieri che si rincorrono e lentamente si quietano,  sedimentano dentro di noi. Un sorso d’acqua e del cibo, gustati ascoltando la musica del silenzio che la montagna ci offre, aiutano  a godere tanta bellezza.

È ora di rientrare, il ritorno sarà lungo. Ci attende il ripido canalino e poi la discesa in planata sino al coreografico laghetto di Coca, quindi, con le gambe ormai molli e le ginocchia provate, percorreremo la lunga e conosciuta discesa dal rifugio Coca a Valbondione. Giunti in paese, volgendo lo sguardo verso quei versanti su cui si è svolto il nostro cammino, solo la fatica  ci confermerà che questo viaggio non è stato un sogno.


Pubblicato su "OROBIE" - ottobre 2014   

PICCOLE STORIE #12

DISPENSATORI DI SOGNI

Qual è il futuro della nostra associazione? È difficile dirlo, è difficile saperlo. Una cosa però è certa, in questo momento storico il mondo dell’associazionismo, e non solo il nostro, sta attraversando un periodo di crisi legato, principalmente, alla mancanza di partecipazione e di ricambio generazionale. Più volte il nostro Presidente, nei suoi editoriali, ha sollevato il problema con chiarezza e determinazione, interrogandosi e interrogandoci, invitando ciascun socio a dedicare qualche attimo del suo tempo alla nostra associazione. Le risposte sono state timide e i volti di chi organizza e si mette in gioco sono sempre i soliti, le facce nuove, che ringraziamo sentitamente, sono purtroppo poche.
La questione assume contorni preoccupanti soprattutto se guardiamo i numeri. La nostra sezione, nonostante la lieve flessione di iscritti dello scorso anno, conta oltre 10.000 soci. I corsi e le gite, proposte dalle commissioni e dalle scuole, sono sempre  frequentate con assiduità e molto spesso fanno il tutto esaurito. La palestra d’arrampicata pure, addirittura con problemi di sovraffollamento in alcune fasce orarie. Se dovessimo fermarci ai numeri potremmo dire che siamo in gran salute, mentre invece così non è. Se facciamo il rapporto tra chi fruisce dell’attività proposta dalla nostra sezione e chi la organizza, otteniamo dei valori completamente sbilanciati. Con la consapevolezza delle poche forze in campo, mosse da una grande passione, disponibilità e professionalità, i risultati sono stupefacenti e quindi, a maggiore ragione, dobbiamo interrogarci sul perché di questa situazione così squilibrata. Sono tantissime le persone che si avvicinano al mondo della montagna e alle bellezze della natura grazie al nostro club ma pochi sono quelli che si appassionano a tal punto dal dedicare una parte del loro tempo per diventarne promotori verso gli altri.
Perché accade questo? Perché a chi partecipa alle gite, ai corsi, alle serate, non arriva il messaggio che quello di cui godono è il frutto del lavoro volontario di altre persone che, come loro, amano la montagna? Forse siamo noi che sbagliamo e che non riusciamo a comunicare correttamente un concetto basilare: essere associati non vuol dire essere utenti, il CAI è un’Associazione di volontari e non un Agenzia di professionisti.
Quindi se vogliamo uscire da questa situazione di stallo e se desideriamo trovare una risposta a tutte le domande fatte sinora, dobbiamo prima di tutto dare una risposta a quest’ultima domanda: “La nostra associazione, il CAI, è un erogatore di servizi o un dispensatore di sogni?”
Ripartire da questa domanda - e dalle risposte che ognuno di noi si darà - penso sia importante per trovare il giusto equilibrio nelle proposte che faremo ai nostri associati, per affrontare da una nuova prospettiva e con fiducia l’anno che ci aspetta.


#10 UN'IMMAGINE DICE PIU' DI MILLE PAROLE


- Sabato 27 dicembre- ore 15:42:00 – Olera – Alzano Lombardo -

A volte, se ti fermi, se stai zitto zitto, se trattieni il fiato, se stai immobile, proprio allora ne senti la musica. Suoni soffici. Prima li avverti appena, ma se ti concentri e resti ancora un poco più immobile, ancora un poco più zitto, ancora un poco più fermo e trattieni il respiro ancora un poco, la musica sale e ti travolge, ti avvolge e ti incanta. E proprio allora ti chiedi: ma come potevo non sentirla prima?