mercoledì 28 dicembre 2016

27 #UNIMMAGINEDICEPIUDIMILLEPAROLE


OltreConfine - Era novembre quando sono entrato nel Palazzo della Ragione per visitare questa mostra, dove le immagini davano voce a chi voce non ha. Immagini potenti e dirette a raccontare il nostro tempo, il nostro mondo. Ogni scatto una storia, che è anche la nostra storia, in cui contraddizioni e umanità si intrecciano. Storie di disperazione e di speranza che ci riguardano e a cui non possiamo sottrarci, con cui dobbiamo fare i conti, perché ci siamo immersi. Così stava scritto sulla cartolina “Un racconto visivo e una presa di coscienza per parlare di migranti, dei loro viaggi …” E mentre osservavo, l’immagine del confine geografico, che avevo nella mia mente, lentamente lasciava spazio alla percezione di un confine più intimo, il confine tra me e l’altro. Il confine non è più frontiera ed elemento di divisione ma qualcosa di permeabile: una superficie di contatto tra due persone che si possono conoscere, tra due mondi che si possono parlare. Forse ripensando al confine in questi termini si potrebbero scardinare pregiudizi e paure. E se il confine diventa elemento di vicinanza e non di chiusura, con conoscenza e coscienza si potrebbe iniziare a percorrere una nuova strada per costruire risposte civili ed umane. Rifletto e cammino sotto l’alto soffitto del Palazzo della Ragione e più volte passo davanti alle singole immagini ed ogni volta mi soffermo davanti a questo grande pannello. Sono attratto dallo sguardo magnetico di questo bimbo, incorniciato nell’abbraccio della madre e nei mille riflessi argentei del telo termico, e penso alle Madonne con Bambino del nostro Rinascimento. Da quel giorno questo sguardo e questa immagine mi accompagnano. Da quel giorno continuo a chiedermi se ciò che faccio è sufficiente e cosa posso fare di più, per chi non ha voce.
#OltreConfine #Fotografica
Grazie ad Alessandro Penso per lo scatto che ancora oggi mi invita a riflettere e che ha fatto da copertina a Fotografica - Festival di Fotografia Bergamo

martedì 20 dicembre 2016

20 #PICCOLESTORIE


 LA NEVE A MILANO

“Anche nei nostri sogni nevica,
ma una sola volta nella vita.”
Orhan Pamuk


Volevo vedere la neve. L’ho cercata dietro casa, sulle alte cime: nei valloni dove al sole non è concesso entrare, nei canali e sulle cenge delle pareti nord. L’ho trovata nascosta nei luoghi d’ombra, ma ogni volta, giunto in vetta, non ho potuto immergere lo sguardo nel candore di un paesaggio fatto di neve e cielo. Ogni volta gli occhi correvano su distese di monti brulli e austeri, a perdita d’occhio. Creste e crinali a rincorrersi e intrecciarsi, affascinanti di certo ma senza la magia del morbido e candido mantello. Mentre l’attendo continuo la ricerca, tra i libri e le immagini, a volte la trovo nei luoghi più improbabili.
E chi l’avrebbe mai detto? Ho trovato la neve a Milano. In una fredda mattina di dicembre, se ne stava lì ad aspettarmi oltre la porta di una galleria d’arte; di rosso e di giallo i muri, ad incorniciare il piccolo accesso ad una promessa: “Anima Bianca”. Sono entrato. Caldo, ho tolto la giacca. Due sale, venticinque tele a parlare di neve. Se escludo Segantini, non conosco nessuno di questi pittori italiani dell’ottocento. Quindi mi metto in ascolto e scruto con attenzione, come avessi di fronte una grande parete, su cui identificare la linea di salita, o un pendio candido e vergine, sovraccarico di neve, dove scendere in sicurezza e lasciare la mia effimera traccia. Inizio col riconoscere alcuni luoghi, non tutti. Poi osservo con maggiore attenzione e, di fronte ad alcuni quadri, scatta qualcosa. Sento perfettamente. Il silenzio ed il gelo intenso che immobile cala con l’avvento della notte mentre le ultime luci del sole infiammano le alte creste. Il sibilare del fhon che ti investe e penetra sin dentro le ossa, mentre i larici si piegano e scricchiolano sotto la sua sferza. La magia dei fiocchi che cadono e vestono un grumo di case sulle rive di un lago. Il calore intenso che sa evocare la luce oltre la finestra di una baita persa nel candore di un paesaggio notturno. Assorto passo da una tela all’altra e mi soffermo. Il tempo scorre e non me ne accorgo. A volte mi pare di sentire le medesime emozioni provate quasi due secoli fa da quei pittori. I loro colori su quelle tele, come per magia, mi parlano di un candido incanto ed io li ascolto e mi meraviglio, come fossi lì al loro fianco, in quel preciso istante in cui hanno catturato l’anima della neve. Sembrerà assurdo ma lì in quelle due stanze mi sono immerso nella bellezza della neve come fossi tra i miei monti. Si, è successo: ho trovato la neve a Milano.

sabato 17 dicembre 2016

2 #APPUNTI - Prima che la neve

PRIMA CHE LA NEVE
Un lungo autunno
è trascorso
lento.
In cammino
tra boschi
e castelli di pietra,
a cercare
una strada
una storia.
Prima che la neve
strappi
l’ultima foglia
e copra di silenzio
i monti.

- domenica 24 dicembre 2006 - #appunti



L’altro giorno, dopo qualche tempo, incontro Marilisa. Ci salutiamo e subito mi dice: “Sai! Ti leggo sempre.” Inutile dire che mi ha fatto piacere e la ringrazio per il tempo che dedica ai miei neri. Poi aggiunge: “Ma la poesia? Dai, non dirmi che non ci hai mai provato.” E ci scambiamo alcune battute nel merito, ponendo l’attenzione sul piacere che dona la lettura ad alta voce, della poesia.
Ora eccomi qui. Stimolato dalle sue parole ho frugato tra i miei appunti per ripescare qualcosa che di una poesia abbia una parvenza. E qualcosa ho trovato, parole scritte negli anni, appunti presi per fissare un attimo o un’emozione. Li ho riletti e, come sempre quando rileggo le mie parole, qualcosa ho aggiunto, qualcosa ho tolto, qualcosa ho spostato e limato. Poi mi sono trovato tra le mani queste parole, scritte esattamente dieci anni fa, e mi ci sono ritrovato. Quindi mi sono detto: “Perché no!”.
Grazie Marilisa, che buono sia il cammino verso ogni anno che verrà.

1 #APPUNTI - Bacio di fuoco

Nell'ombra la luce

Irrompe

Un bacio di fuoco

- venerdì 9 dicembre 2016 -  #appunti


26 #UNIMMAGINEDICEPIUDIMILLEPAROLE


giovedì 15 ‎dicembre ‎2016, ‏‎07:24:52 - Pizzo del Becco – Lago di Sardegnana

Ancora qui / Ancora tu
Ora però, io so chi sei / Chi sempre sarai
E quando mi vedrai / Ricorderai
- Elisa Toffoli -



Ancora qui, su queste ripide scale che bordano la condotta forzata. Ancora qui, sotto questo zaino carico. Ancora qui, gradino dopo gradino, con il sudore che gocciola dalla fronte ed il respiro che si condensa nel fascio di luce della frontale. Ancora qui con la voglia di tornare tra le pieghe della montagna, per salire sin dove termina la terra e ha inizio il cielo. Dopo una settimana esatta ritorno, ancora qui, ad ascoltare il freddo silenzio dell’aurora. Una notte speciale sta volgendo al termine, una lunghissima notte di plenilunio. La scalinata perde forza e al suo termine compare la muraglia della diga di Sardegnana, la luce lunare la rischiara. Spengo la frontale e procedo inseguendo la mia ombra. Ben presto sono oltre la diga, oltre la casa dei guardiani ed inizio a costeggiare il lago, percorrendo i binari della vecchia decauville. Alla mia destra si compiono magici giochi di luce, riflessi e riverberi si rincorrono sulle superfici di ghiaccio che lasciano posto alle acque increspate. Ben presto, l’intero specchio sarà avvolto dal gelido abbraccio dell’inverno incipiente. Lei è alle mie spalle, la sua luce m’investe disegnando un’ombra lunga che mi indica il cammino. Ancora non mi volto, cammino e pregusto il momento in cui arriverò al termine del lago, là dove avrà inizio la salita del vallone. Procedo e alzo lo sguardo. I neri profili dei Corni di Sardegnana ritagliano un cielo profondo, leggermente discosta, sulla destra, oltre il dosso coronato di larici, sbuca la mole del Pizzo del Becco. È giunto il momento, mi volto, la vedo, lei è lì: perfetta. Impercettibilmente si abbassa sull’orizzonte, spande la luce tutta attorno, lo specchio d’acqua restituisce un caleidoscopio di riflessi che posso solo trattenere con lo sguardo nell’impossibilità di descriverli. Mi fermo un attimo e godo di tanta meraviglia, riaffiorano infiniti ricordi di tutte le notti di luna piena passate tra i monti. Lo sguardo è calamitato da questo spettacolo, riprendo il cammino osservando il disco lunare. Sorrido pensando a come, ancora oggi, l’emozione e lo stupore mi travolgano senza trovare alcuna barriera, lasciandomi senza fiato. Io salgo e inizio a pestare la neve, lei scende nascondendosi tra i larici spogli che orlano il crinale. Il tempo scorre e debbo lasciarla andare oltre l’orizzonte. La saluto, come potesse sentirmi, dandole appuntamento … a presto.

domenica 11 dicembre 2016

25 #UNIMMAGINEDICEPIUDIMILLEPAROLE

sabato ‎3 ‎dicembre ‎2016, ‏‎12:44:18 - Pizzo Redorta (3038m) – Canale Tua

“Ti do me stessa,
le mie notti insonni,
i lunghi sorsi
di cielo e stelle - bevuti
sulle montagne,
la brezza dei mari percorsi
verso albe remote.”

Antonia Pozzi - Bellezza -


Arabeschi candidi ad ornare rocce nere. Ricami effimeri a decorare creste e crinali. Una coltre bianca si è adagiata su questo corpo di pietra. Cammino e mi guardo attorno. Arrampico e mi guardo attorno. Riposo e mi guardo attorno. Le ore, i minuti e i secondi scorrono. Lei è lì, che io lo voglia o no. Lei è lì, che io la sappia cogliere o meno. Poi ci sono attimi che la intravedo e provo ad afferrarla, ma lei mi sfugge. Infine ci sono istanti in cui lei si manifesta con forza e mi colpisce, lasciandomi stordito, senza fiato. Non posso che fermarmi e restare a bocca aperta, nel tentativo di trattenere l’equilibrio perfetto tra le forme, la luce, i colori, il suono, il profumo e il calore di ciò che lo sguardo e i sensi tutti hanno catturato. Forse me ne scorderò o forse quell’amalgama si cristallizzerà in un ricordo duraturo. Per ora, stupito, mi godo – a lunghi sorsi - la bellezza di questo mondo sospeso. A volte sfilo la fotocamera dalla tasca, nel tentativo presuntuoso di fermarla in uno scatto Ogni volta fatico a staccarmi da quella magia e, quando riprendo il cammino, non posso non chiedermi: “Chissà se ne facciamo parte, e in che misura, di tanta bellezza.”

24 #UNIMMAGINEDICEPIUDIMILLEPAROLE


sabato 11 ‎novembre ‎2016, ‏‎12:08:14 – Valbondione - Pinnacolo di Maslana – Via “Syrinx”

Dieci giorni sono passati dalla nostra ultima visita. Anche oggi il cielo è perfetto, limpido. Ma oggi un vento gelido soffia da nord. Impetuoso ha strapazzato i faggi, rubando loro sino all’ultima foglia. Inarrestabile ha ramazzato l’aria da ogni impurità, rendendola tersa e luminosa. Impietoso sottrae calore ai nostri corpi. Alla base del Pinnacolo ci cambiamo velocemente. Tolti gli abiti sudati, ci infiliamo ogni indumento asciutto che abbiamo nello zaino: pantaloni lunghi, maglia a maniche corte, quella a maniche lunghe, pile, giacca leggera, infine giacca antivento e sotto il casco ci teniamo pure la berretta. Siamo buffi, vestiti come dovessimo affrontare una nord d’inverno. La settimana scorsa erano stati sufficienti un paio di pantaloncini e una maglia. Oggi è il vento che la fa da padrone ed il sole non vuole arrivare per portarci sollievo. Indugiamo oltre un’ora, aspettando che la luce coli dall’alto a riscaldare le placconate basali e il grottino da dove ha inizio la scalata. Eccola, arriva. Il vento non cessa ma la scura roccia del Pinnacolo ben presto accumula calore e non appena la tocco, lo restituisce alle mie mani intirizzite. Inizio a scalare e mi sembra di essere un pezzo di legno, insicuro e impacciato affronto la prima lunghezza. La roccia generosa restituisce calore e le mani riconoscenti lentamente si scaldano: i piccoli piaceri dell’arrampicata. Anche oggi siamo soli sulla montagna e anche questo mi piace: essere soli. Mentre saliamo e ci allontaniamo da terra, il vento continua a strapazzarci. Ci giochiamo, con il vento, anche grazie a lui questa giornata è unica. In sosta ci appiattiamo contro la parete per proteggerci e cogliere anche il minimo tepore che la montagna ci dona. Più volte mi ritrovo ad osservare assorto in lontananza, cercando quell’anfiteatro tra luce ed ombra, affacciato sulla valle. Lo trovo, scruto con attenzione lo spettacolo degli arabeschi di ghiaccio che hanno iniziato a formarsi alle quote più alte, sulle muraglie nere di Howl. Sono passati quattro anni da quando facemmo visita a quel luogo incredibile. Spero che il vento continui a soffiare freddo e gelido, foriero di un inverno in cui effimere cattedrali e fortezze di ghiaccio si formino e fioriscano ad impreziosire i nostri monti. Un richiamo mi giunge dall’alto. Cardu, il Re, è alle prese con il passaggio chiave della via. Lo osservo e seguo ogni suo movimento con attenzione, mentre me ne resto appollaiato sul terrazzino della sosta, ben accovacciato contro la parete. Ora lo sguardo è fisso su di lui mentre i pensieri volteggiano tra le raffiche di vento, rincorrendo i desideri e attendendo il momento per riprendere a scalare.

venerdì 9 dicembre 2016

19 #PICCOLESTORIE

LA BELLEZZA DEL MONDO, DELLE COSE E DELLE PERSONE
Sono le quattro e mezza del pomeriggio e, dopo oltre dieci ore di non stop, ti ritrovi sul nastro d’asfalto di fondovalle, a Fiumenero. I piedi, costretti negli scarponi, implorano pietà, oggi più che mai hanno fatto il loro dovere, senza tregua. Ti hanno portato sino nella Conca dei Giganti e poi, sulla punta dei ramponi, ti hanno spinto verso l’alto, lungo quel budello di neve e ghiaccio, conducendoti a calcare il Pizzo Redorta, la seconda vetta più alta delle tue montagne. Si sono quindi sorbiti la lunga discesa e ora sarebbe giusto ringraziarli e rendergli merito, liberandoli da quella gabbia.

Ma per rientrare a Valbondione devi percorrere oltre quattro chilometri di strada. Ti incammini lentamente, inizia ad imbrunire. Nessuna auto transita a quell’ora nella tua direzione. Ad un tratto senti sopraggiungere il suono di un motore. Eccola! L’auto sbuca dalla strettoia tra le case e ti viene incontro, i fari sono accesi. Metti fuori il dito. Chissà a cosa pensa l’autista nel vedere quella sagoma a bordo strada, con uno zaino carico in spalla e gli scarponi ai piedi. Purtroppo non ti è dato saperlo, nemmeno rallenta, nemmeno ti guarda e schizza oltre. Sconsolato ti guardi attorno. Mentre ti incammini ti chiedi: ma cosa gli costava darti un passaggio, aveva pure l’auto vuota; è evidente che sei un alpinista, forse un poco bislacco ma non pericoloso; poi siamo a Fiumenero e non sulla Dalmine-Villa d’Almè. Dopo poco altre due auto sbucano dalla strettoia. Stessi pensieri, medesimo gesto. Metti fuori il dito. La prima auto, pare una fotocopia di quella precedente, schizza oltre senza esitazione. Mannaggia a te. Perché la gente non si fida? Osservi fiduciosi la seconda auto. Non accelera, come han fatto le altre, rallenta, mette la freccia, accosta e si ferma esattamente di fianco a te. Sorridi mentre si abbassa il finestrino e i tuoi piedi stanno già esultando all’idea di non dovere percorrere quei quattro chilometri d’asfalto. Mentre ti chini e l’autista ti dice “Vado a Lizzola, dove vai?” i vostri sguardi si incrociano e vieni colto da una piacevole sorpresa. Lui è nerissimo, nella penombra dell’abitacolo risaltano il candore dei suoi denti e il bianco degli occhi. Il suo italiano è perfetto, segnato da quella cadenza tipica di chi proviene dall’Africa centrale. “Va benissimo! – rispondi – Vado a Valbondione, per recuperare l’auto”. Apri la portiera e nel salire ti senti in imbarazzo, sei sudato e sporco, lo zaino ingombra e fuori ci sono appesi ramponi, casco e picche. La sua auto è pulita e profumata, come la tua non è mai stata. Con attenzione sali e ti scusi per gli scarponi che lasceranno qualche segno sul tappetino. Ti tieni lo zaino sulle gambe facendo in modo che non si appoggi da nessuna parte. Incuriosito inizi a parlare e a fargli domande. Intuisci che lavora a Lizzola presso il centro di prima accoglienza per i profughi, quello gestito dalla Caritas, e così scopri un sacco di cose. Lui è affabile e senti che risponde e chiacchiera con piacere.  Il tuo provvidenziale angelo, ventiquattro anni fa, è arrivato dal Senegal e si è stabilito in valle Seriana dove abita e ha messo su famiglia. Ti parla dei suoi quattro figli, nerissimi come lui e italianissimi come te, nati e cresciuti in un paese della valle. Mentre ti descrive il suo lavoro, come operatore e mediatore culturale nei centri d’accoglienza, comprendi che ha le idee ben chiare sull’importanza di ciò che fa e perché lo fa. Vi confrontate sui temi delle migrazioni e delle ricadute sui paesi europei, sull’Italia e su queste piccole comunità della valle. Ormai siete a Valbondione e un poco dispiaciuto lo saluti e lo ringrazi. Mentre gli stringi la mano non sai nemmeno se lo stai ringraziando per il passaggio che ti ha dato o per quello che persone come lui rappresentano in questo mondo. Gli auguri un buon lavoro, mentre scendi e chiudi la portiera, lui ti sorride e ti saluta un’ultima volta con un gesto della mano. Te ne stai lì come un babbeo a guardare l’auto che affronta la salita e scompare dietro il primo tornante. Persone così le vorresti abbracceresti, perché sono il segno di una realtà che è già un passo avanti a tutti i discorsi pro o contro l’accoglienza e l’integrazione. Lui e tanti come lui, sono testimoni silenziosi che, tra le urla becere di gente miope, dimostrano con i fatti che un futuro è possibile, un futuro fatto di lavoro, di umiltà e di perseveranza. Ti incammini verso la tua auto e pensi che anche in questi incontri risiede la bellezza del mondo. I piedi ti conducono in questo breve cammino, fanno questo ultimo sforzo attendendo il momento in cui ti prenderai cura di loro, ma ora la tuo pensiero vola leggero tra le immagini che ti sono restate impresse in questa lunga giornata tra i monti. Alzi lo sguardo e riassapori quegli attimi, godendo ancora di quella bellezza fatta di neve, ghiaccio, roccia e cielo, di cui non potrai mai farne parte ma in cui potrai immergerti ogni volta che ne sentirai il desiderio. E tornato a valle scoprire anche quanta bellezza ci sia in un semplicissimo passaggio in auto da Fiumenero a Valbondione. Infine sei giunto al punto di partenza, togli lo zaino dalle spalle e lo appoggi a terra, prendi le chiavi e apri l’auto. È giunto il momento per assaporare l’intenso piacere che a breve proverai nell’allentare le stringhe, sfilarti gli scarponi, toglierti le calze e infine liberare i tuoi piedi nell’aria fredda della sera.

18 #PICCOLESTORIE

SCRIVERE E' UN PIACERE - UNA GIORNATA DI PIOGGIA

Oggi piove, gocce d’acqua lavano l’aria. Le temperature si sono abbassate, in casa ho acceso il camino. Scrivo ed osservo dalla finestra mentre tu leggi un romanzo davanti al fuoco. Esco sul terrazzo, mi immergo nell’aria fredda e nel rumore della pioggia che cade sugli antichi tetti e sul bosco dormiente. Chiudo la felpa e osservo. Poco dopo rientro e poso una mano tra i tuoi capelli, per una carezza, e ti saluto. Mi cambio ed esco sotto la pioggia. Ora è meno intensa. Corro lungo la mulattiera e salgo al poggio mentre le campane di San Grato invadono con un suono allegro la vallata, richiamando i fedeli a chissà quale cerimonia. Ognuno in fondo ha la sua cerimonia, il suo rito. Questo scampanio mi piace e a lungo mi accompagna. Corro nei colori che si sfrangiano ai mie lati, in un caleidoscopio che tutto raccoglie, miscela e rimanda. Per un attimo vedo distintamente la gemma gonfia, il germoglio delicato, la corolla di un anemone, la scorza gocciolante di una quercia, le foglie che macerano a terra, la selce che affiora dal calcare, lo stillicidio da una roccia aggettante. Migliaia di fermi immagine per il mio sguardo, per un istante solo, immobili, prima di fluire come infiniti fotogrammi. Il mondo e la natura si avvicinano, si fermano per poco negli occhi, mi lasciano e vanno oltre, dietro le spalle. Forse sono loro che si muovono ed io sono fermo. Sento belare, dietro la curva il piccolo gregge è un muro compatto sulla mulattiera, lo attraverso. Lana bagnata sfrega la pelle nuda delle gambe, saluto Costantino, lui mi guarda divertito da sotto il suo ombrello, un rapido scambio di battute e sono oltre, quasi al Casello. Gli occhi corrono più delle gambe, attenti ed ingordi per cogliere di più, sempre di più, e prestano attenzione ad ogni passo, ad ogni appoggio, alla pozza, al fango, alla pietra scivolosa, al ghiaietto sdrucciolo. È incredibile eppure accade. In frazioni infinitesime di secondo il messaggio va dagli occhi al cervello e da lì viene smistato ai tendini, ai legamenti, ai muscoli. La macchina corporea si adatta immediatamente applicando il giusto appoggio, la corretta angolazione, la spinta precisa che deve imprimere per non scivolare e per spingersi avanti nello spazio e nel tempo. Il mondo interiore mi affascina quanto quello esterno. La nostra natura umana e la natura del mondo si parlano attraverso i sensi ed i piedi, in un dialogo serrato e senza fine. L’aria è satura di suoni, i suoni della natura ed i rumori sempre diversi dei miei passi. Passi sul sentiero, sull’asfalto, sulla mulattiera, sull’erba bagnata. A volte le nubi avvolgono il bosco ed oltre il groviglio di tronchi e rami c’è solo il grigiore luminoso del vapore e di migliaia di gocce d’acqua giunte chissà da dove per dissetare questo angolo di terra. Sono fradicio e corro. Penso all’attimo in cui rientrerò nel tepore della casa, penso a te raggomitolata sul divano, davanti al camino. Alla doccia calda che mi attende. A quella sensazione di stanchezza e fatica che invade il corpo dopo ogni corsa ed ogni volta mi fa sentire vivo. Perso nei miei pensieri, continuo a bearmi del mondo che mi circonda e di tutto ciò che mi racconta
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