martedì 21 aprile 2020

VAGABONDI AD ORIENTE - CERCANDO L'INCANTO

Tre giorni intensi
vagabondando tra le pieghe
delle Orobie ad oriente.


È tardi. La prima giornata è stata lunga, molto lunga. È ora di rientrare al bivacco, un guscio di legno e lamiera rossa appollaiato sulla cresta, in un luogo incredibile. Ma ancora per qualche istante ci tratteniamo sulla vetta del Monte Torsoleto. L’intera Valle Brandet, ormai avvolta nell’ombra, si stende ai nostri piedi puntando dritta verso nord e là, in fondo, oltre le scure abetaie, il borgo di Sant Antonio si prepara alla notte.
Da quel pugno di case, incastrate alla confluenza delle valli di Brandet e di Campovecchio, ci siamo incamminati alle prime luci del giorno, con passo lento e accorto, sotto il peso di zaini carichi e con gli sci a spalla. Il torrente con il suo fragore ci tiene compagnia e, dopo il primo balzo, lentamente si quieta mentre risaliamo la vallata. A fare da controcanto c’è l’allegro cinguettare degli uccelli nascosti tra le chiome degli abeti. C’è profumo di primavera. Al rifugio Brandet il comignolo fuma e si scorge una luce oltre i vetri appannati, qualcuno si sta risvegliando. Proseguiamo tra chiazze di neve, pozze d’acqua ghiacciata e morbide lettiere di aghi e di muschi. Solo a Malga Casazza la copertura nevosa si fa continua e cospicua. La valle, sagomata da antichi ghiacciai, qui ha termine in un impressionante circo su cui convergono ripide valli laterali. Tutt’attorno, come una corona, svettano cuspidi candide che catturano i primi raggi di sole, brillano. Calziamo scarponi e sci, svoltiamo a destra e risaliamo la Valle del Piccolo. Gli abeti lasciano spazio ai larici e poi pure loro si diradano ed il pendio si fa sempre più ripido. Attraversiamo cumuli di valanga che fanno una certa impressione, cercando di non perdere la traccia labile del sentiero estivo. Attraversiamo la valle e ci portiamo in zone aperte dove dossi e conche si alternano a brevi tratti più ripidi. Dall’alto guardiamo i pendii del Palone di Lizzia solcati dalle valanghe, ora procediamo più tranquilli. Il paesaggio si apre, si fa imponente e ce n’è da colmare lo sguardo sino a ubriacarsene. Non vi è traccia alcuna di precedenti passaggi e gli unici segni di vita sono le corse e i balzi dei camosci o il frullare delle ali di alcune pernici bianche all’involo. Io e Marco per tutta la salita sappiamo solo dire “Che meraviglia!” e lo ripetiamo come fossimo due dischi rotti, senza aggiungere altro. Finalmente scolliniamo nel gigantesco catino che ospita il lago di Piccolo. Di questo specchio d’acqua, che riposa sotto metri di neve, so solo che è il lago naturale più grande di tutte le Orobie. Per fortuna nessuno lo ha imbrigliato con una diga e ne ha sfruttato le acque. Marco allunga la falcata, è impaziente di arrivare. Il profilo del passo e del crinale, che sale sino al bivacco Davide e alla vetta del Monte Torsoleto, si staglia contro il blu di un cielo oltremare. Sbucati sulla cresta restiamo senza parole, ormai il repertorio per esprimere il nostro stupore è stato abbondantemente saccheggiato, non possiamo che restare in silenzio. Davanti a noi l’intero crinale che divide la Val di Scalve dalla Val Camonica e, ben allineate come tante sentinelle, si dispongono le cime calcaree delle prealpi: la cima della Bacchetta, la cima di Baione, il Cimon della Bagozza e poi giù sino al Sossino e al Pizzo Camino, infine, in lontananza, la meravigliosa bastionata della Presolana. Per noi bergamaschi quelle sono le montagne di case, le terre conosciute, ma oggi abbiamo deciso di avventuraci per terre incognite, in questo lembo di Orobie al confine tra le valli bergamasche, valtellinesi e bresciane, dove è bello vagabondare con gli sci.

Il “Bivacco Davide” è accogliente. Svuotiamo gli zaini e spaliamo la neve. Il sole è caldo. Mentre sciogliamo la neve per fare riserve d’acqua, beviamo parecchio e mangiamo qualcosa. Ci riposiamo comodamente stesi contro le lamiere del nostro rifugio. La pace, la quiete e la solitudine sono assoluti e ci godiamo tutto in un silenzio sospeso. È fine aprile e le giornate sono lunghe, nel pomeriggio decidiamo di raggiungere la vicina vetta. Mettiamo nello zaino il minimo indispensabile, sapendo già che non resisteremo al meraviglioso pendio nord che abbiamo intravisto dal fondo valle. E così accade. Una rapida occhiata ad este, all’intero massiccio dell’Adamello e alle Prealpi Bresciane, e sul filo di cresta superiamo la linea d’ombra, dando inizio ad una discesa in neve fresca e leggera. Ci godiamo ogni curva, sempre più giù, sino dove si riesce. Poi, ci tocca risalire in vetta. È ora di rientrare al bivacco. Attendiamo il tramonto mentre sul fornelletto cuoce la zuppa e dalle sacche escono leccornie di ogni tipo e un ricambio di indumenti asciutti e caldi. Basta la fiamma del fornelletto e il lume di due candele per riscaldare un poco l’ambiente. Fuori è ormai buio ed il cielo è una trapunta nera imbastita di stelle.
Al risveglio tutto è ghiacciato. Riaccendiamo il fornelletto per scaldare la colazione e ci prepariamo per il secondo giorno. Abbiamo scorte per altri quattro giorni, siamo ottimisti pur sapendo che domani o dopodomani arriverà una perturbazione molto attiva che porterà copiose nevicate in quota. Oggi, giorno di Pasqua, iniziamo con una discesa ruvida, cercando una linea probabile per gli sci, tra balze rocciose, canalini e cumuli di valanga. Ancora una volta abbiamo lasciato il certo per l’incerto. Siamo scesi direttamente alla Malga Largone. Forse era meglio passare dal rifugio Torsoleto e dalla Cima dei Matti, sicuramente era più semplice. Poi, sempre con calma, abbiamo dato il via ad un lungo vagabondaggio sul limitare delle tre provincie: Brescia, Bergamo e Sondrio, le cui terre convergono e s’incontrano sulla bella piramide del Venerocolo. Quattro sono state le salite che poi si sono susseguite. Abbiamo assaporato ogni passo, ogni respiro, ci siamo incantati davanti ad ogni panorama, cogliendo anche i più insignificanti dettagli. Larici solitari si spingono alle quote più alte, a volte mi fermo e li osservo. I rami si flettono mossi dal vento, le gemme sono gonfie e pronte a cogliere il giusto attimo per dischiudersi. Sento pulsare la vita e riprendo il cammino. Dalla cupola ampia del monte Largone ci attende una discesa su velluto perfetto sino alle malghe di Sellero e di Sellerino. Poi, oltre il passo di Venerocolo, il sole ha lavorato leggermente la neve e qui disegniamo curve ampie e sinuose su di un “firn” perfetto, sino ai laghi sotto il passo di Venerocolino. Sulla salita al passo Demignone inizio ad accusare un poco di fatica che scordo immediatamente quando mi affaccio sull’impressionante vallone che scende a nord. Marco mi sta aspettando e freme per dare inizio alla discesa. Mi piace la compagnia di Marco, c’è intesa. Quando serve si viaggia vicini, ci si aiuta e sostiene, altrimenti ciascuno segue il suo passo i suoi ritmi, però senza mai perderci di vista, e ai cambi pelle ci si attende sempre per fare il punto e decidere insieme dove procedere. Nulla è scontato, ne siamo consapevoli e sappiamo che la nostra sicurezza e la riuscita del viaggio risiede nel lavoro di squadra. Ora c’è una valle solitaria, dalla neve intonsa e leggera, che attende di essere ricamata dai nostri sci. Insieme decidiamo dove saltare la cornice ed entrare sul pendio. Partiamo, mentre uno scende l’altro lo tiene d’occhio. Dove il pendio si fa più ampio e meno ripido si scende insieme. A malga Demignone ci concediamo una lunga pausa per riposarci, bere e mangiare qualcosa. Quindi, con il giusto ritmo e una buona crema abbronzante, spalmata ovunque, ci avviamo verso l'ultima salita. La lunga dorsale che sale dal passo di Belviso verso le creste che uniscono il monte Gleno al Trobe e allo Strinato, sino all’ampia sella del passo di Pila Grasso, si insinua netta e severa dentro il cielo, alla nostra destra. Da lì vorremmo passare domani, per andare a pernottare al rifugio Curò e proseguire oltre verso i 3000 delle Orobie. Purtroppo gli aggiornamenti meteo confermano l’arrivo della perturbazione ma noi continuiamo a sperare e rimandiamo la decisione a domani. Il sole è caldo ed il ripido pendio finale che ci conduce al passo del Vernano, ci fa sudare non poco. Ecco, ancora due inversioni e scolliniamo sull’ampia sella dove, poco più in basso, sorge il rifugio Tagliaferri, affacciato sul versante scalvino. Ci voltiamo ancora una volta verso il versante valtellinese, il tempo è bello, sembra impossibile che possa arrivare una perturbazione. La Val Belviso si stende sotto di noi e verdi foreste d’abete fanno da cornice all’immenso specchio d’acqua. Davanti a noi si mostra un altro lago da record, il lago del Belviso è l’invaso artificiale più grande di tutte le Orobie. Scendiamo al rifugio, il luogo è austero il paesaggio che lo circonda non è da meno. Spaliamo la neve per potere entrare nel locale invernale. È pulito e dotato del solo materiale per dormire, sul tavolo all’ingresso attrezziamo il nostro angolo cucina ed iniziamo a sciogliere neve sul fornelletto. Ben presto il rifugio va in ombra e il termometro precipita velocemente sotto lo zero. Si mangia e si chiacchiera, riusciamo pure a chiamare casa per dire che è tutto ok e per avere conferma delle previsioni meteo. Sopraggiunge la notte, usciamo per un ultimo sguardo che si perde in un cielo limpido e stellato. Questi momenti mi incantano, si chiude un’altra giornata solitaria in cui tutto è ridotto all’essenziale e la mente può vagare liberamente. È ora di andare a dormire.
Pasquetta. Un'alba livida ci accoglie al risveglio. Purtroppo le previsioni meteo ci hanno azzeccato. Oggi potrebbe anche andare di lusso ma domani arriverà una perturbazione molto attiva. Come avevamo paventato si cambia programma. Invece di proseguire verso le valli bergamasche, vagabonderemo ancora ad Oriente. Pochi passi ci conducono dal rifugio Tagliaferri al passo del Vernano. Che meraviglia, iniziare la giornata con una discesa. Oltre il crinale, che ci chiude la vista, c'è una montagna dalle forme eleganti, una piramide che svetta su queste terre, il Monte Telenek. Da lì si accede ad un luogo mitico per gli scialpinisti della mia generazione, il vallone delle Rose. Noi ci dirigiamo là. Velature più o meno consistenti si alternano a qualche schiarita, ma i cieli azzurri dei giorni scorsi sono solo un ricordo. Baite Radici di Campo, Malga di Campo, lago di Pisa, attraversiamo nuove valli e nuovi luoghi verso la nostra meta ed infine eccoci sul monte Nembra, di fronte alla piramide del Telenek. Il Vallone delle Rose è lì, che ci attende. Al suo termine la valle di Campovecchio promette una lunga ed infinita passeggiata. Ed infine si torna, con lo zaino colmo di emozioni, di esperienze e di nuove storie. Mentre gli occhi riposano nel verde le case di Sant'Antonio si avvicinano. E con l’amico Marco stiamo già fantasticando e progettando un nuovo vagabondaggio.

Articolo pubblicato su OROBIE Marzo 2020

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