Tre giorni
intensi
vagabondando tra le pieghe
delle Orobie ad oriente.
È
tardi. La prima giornata è stata lunga, molto lunga. È ora di rientrare al
bivacco, un guscio di legno e lamiera rossa appollaiato sulla cresta, in un
luogo incredibile. Ma ancora per qualche istante ci tratteniamo sulla vetta del
Monte Torsoleto. L’intera Valle Brandet, ormai avvolta nell’ombra, si stende ai
nostri piedi puntando dritta verso nord e là, in fondo, oltre le scure abetaie,
il borgo di Sant Antonio si prepara alla notte.
Da
quel pugno di case, incastrate alla confluenza delle valli di Brandet e di Campovecchio,
ci siamo incamminati alle prime luci del giorno, con passo lento e accorto,
sotto il peso di zaini carichi e con gli sci a spalla. Il torrente con il suo fragore
ci tiene compagnia e, dopo il primo balzo, lentamente si quieta mentre
risaliamo la vallata. A fare da controcanto c’è l’allegro cinguettare degli
uccelli nascosti tra le chiome degli abeti. C’è profumo di primavera. Al
rifugio Brandet il comignolo fuma e si scorge una luce oltre i vetri appannati,
qualcuno si sta risvegliando. Proseguiamo tra chiazze di neve, pozze d’acqua
ghiacciata e morbide lettiere di aghi e di muschi. Solo a Malga Casazza la
copertura nevosa si fa continua e cospicua. La valle, sagomata da antichi
ghiacciai, qui ha termine in un impressionante circo su cui convergono ripide
valli laterali. Tutt’attorno, come una corona, svettano cuspidi candide che
catturano i primi raggi di sole, brillano. Calziamo scarponi e sci, svoltiamo a
destra e risaliamo la Valle del Piccolo. Gli abeti lasciano spazio ai larici e
poi pure loro si diradano ed il pendio si fa sempre più ripido. Attraversiamo cumuli
di valanga che fanno una certa impressione, cercando di non perdere la traccia
labile del sentiero estivo. Attraversiamo la valle e ci portiamo in zone aperte
dove dossi e conche si alternano a brevi tratti più ripidi. Dall’alto guardiamo
i pendii del Palone di Lizzia solcati dalle valanghe, ora procediamo più
tranquilli. Il paesaggio si apre, si fa imponente e ce n’è da colmare lo
sguardo sino a ubriacarsene. Non vi è traccia alcuna di precedenti passaggi e
gli unici segni di vita sono le corse e i balzi dei camosci o il frullare delle
ali di alcune pernici bianche all’involo. Io e Marco per tutta la salita
sappiamo solo dire “Che meraviglia!” e lo ripetiamo come fossimo due dischi
rotti, senza aggiungere altro. Finalmente scolliniamo nel gigantesco catino che
ospita il lago di Piccolo. Di questo specchio d’acqua, che riposa sotto metri
di neve, so solo che è il lago naturale più grande di tutte le Orobie. Per
fortuna nessuno lo ha imbrigliato con una diga e ne ha sfruttato le acque. Marco
allunga la falcata, è impaziente di arrivare. Il profilo del passo e del
crinale, che sale sino al bivacco Davide e alla vetta del Monte Torsoleto, si
staglia contro il blu di un cielo oltremare. Sbucati sulla cresta restiamo
senza parole, ormai il repertorio per esprimere il nostro stupore è stato
abbondantemente saccheggiato, non possiamo che restare in silenzio. Davanti a
noi l’intero crinale che divide la Val di Scalve dalla Val Camonica e, ben
allineate come tante sentinelle, si dispongono le cime calcaree delle prealpi:
la cima della Bacchetta, la cima di Baione, il Cimon della Bagozza e poi giù
sino al Sossino e al Pizzo Camino, infine, in lontananza, la meravigliosa
bastionata della Presolana. Per noi bergamaschi quelle sono le montagne di
case, le terre conosciute, ma oggi abbiamo deciso di avventuraci per terre
incognite, in questo lembo di Orobie al confine tra le valli bergamasche, valtellinesi
e bresciane, dove è bello vagabondare con gli sci.
Il
“Bivacco Davide” è accogliente. Svuotiamo gli zaini e spaliamo la neve. Il sole
è caldo. Mentre sciogliamo la neve per fare riserve d’acqua, beviamo parecchio
e mangiamo qualcosa. Ci riposiamo comodamente stesi contro le lamiere del
nostro rifugio. La pace, la quiete e la solitudine sono assoluti e ci godiamo
tutto in un silenzio sospeso. È fine aprile e le giornate sono lunghe, nel
pomeriggio decidiamo di raggiungere la vicina vetta. Mettiamo nello zaino il
minimo indispensabile, sapendo già che non resisteremo al meraviglioso pendio
nord che abbiamo intravisto dal fondo valle. E così accade. Una rapida occhiata
ad este, all’intero massiccio dell’Adamello e alle Prealpi Bresciane, e sul
filo di cresta superiamo la linea d’ombra, dando inizio ad una discesa in neve
fresca e leggera. Ci godiamo ogni curva, sempre più giù, sino dove si riesce.
Poi, ci tocca risalire in vetta. È ora di rientrare al bivacco. Attendiamo il
tramonto mentre sul fornelletto cuoce la zuppa e dalle sacche escono leccornie
di ogni tipo e un ricambio di indumenti asciutti e caldi. Basta la fiamma del
fornelletto e il lume di due candele per riscaldare un poco l’ambiente. Fuori è
ormai buio ed il cielo è una trapunta nera imbastita di stelle.
Al
risveglio tutto è ghiacciato. Riaccendiamo il fornelletto per scaldare la
colazione e ci prepariamo per il secondo giorno. Abbiamo scorte per altri
quattro giorni, siamo ottimisti pur sapendo che domani o dopodomani arriverà
una perturbazione molto attiva che porterà copiose nevicate in quota. Oggi, giorno
di Pasqua, iniziamo con una discesa ruvida, cercando una linea probabile per
gli sci, tra balze rocciose, canalini e cumuli di valanga. Ancora una volta abbiamo
lasciato il certo per l’incerto. Siamo scesi direttamente alla Malga Largone.
Forse era meglio passare dal rifugio Torsoleto e dalla Cima dei Matti,
sicuramente era più semplice. Poi, sempre con calma, abbiamo dato il via ad un
lungo vagabondaggio sul limitare delle tre provincie: Brescia, Bergamo e
Sondrio, le cui terre convergono e s’incontrano sulla bella piramide del
Venerocolo. Quattro sono state le salite che poi si sono susseguite. Abbiamo assaporato
ogni passo, ogni respiro, ci siamo incantati davanti ad ogni panorama,
cogliendo anche i più insignificanti dettagli. Larici solitari si spingono alle
quote più alte, a volte mi fermo e li osservo. I rami si flettono mossi dal
vento, le gemme sono gonfie e pronte a cogliere il giusto attimo per
dischiudersi. Sento pulsare la vita e riprendo il cammino. Dalla cupola ampia
del monte Largone ci attende una discesa su velluto perfetto sino alle malghe di
Sellero e di Sellerino. Poi, oltre il passo di Venerocolo, il sole ha lavorato
leggermente la neve e qui disegniamo curve ampie e sinuose su di un “firn” perfetto,
sino ai laghi sotto il passo di Venerocolino. Sulla salita al passo Demignone inizio
ad accusare un poco di fatica che scordo immediatamente quando mi affaccio
sull’impressionante vallone che scende a nord. Marco mi sta aspettando e freme
per dare inizio alla discesa. Mi piace la compagnia di Marco, c’è intesa.
Quando serve si viaggia vicini, ci si aiuta e sostiene, altrimenti ciascuno
segue il suo passo i suoi ritmi, però senza mai perderci di vista, e ai cambi
pelle ci si attende sempre per fare il punto e decidere insieme dove procedere.
Nulla è scontato, ne siamo consapevoli e sappiamo che la nostra sicurezza e la
riuscita del viaggio risiede nel lavoro di squadra. Ora c’è una valle
solitaria, dalla neve intonsa e leggera, che attende di essere ricamata dai
nostri sci. Insieme decidiamo dove saltare la cornice ed entrare sul pendio.
Partiamo, mentre uno scende l’altro lo tiene d’occhio. Dove il pendio si fa più
ampio e meno ripido si scende insieme. A malga Demignone ci concediamo una
lunga pausa per riposarci, bere e mangiare qualcosa. Quindi, con il giusto
ritmo e una buona crema abbronzante, spalmata ovunque, ci avviamo verso
l'ultima salita. La lunga dorsale che sale dal passo di Belviso verso le creste
che uniscono il monte Gleno al Trobe e allo Strinato, sino all’ampia sella del
passo di Pila Grasso, si insinua netta e severa dentro il cielo, alla nostra
destra. Da lì vorremmo passare domani, per andare a pernottare al rifugio Curò
e proseguire oltre verso i 3000 delle Orobie. Purtroppo gli aggiornamenti meteo
confermano l’arrivo della perturbazione ma noi continuiamo a sperare e
rimandiamo la decisione a domani. Il sole è caldo ed il ripido pendio finale
che ci conduce al passo del Vernano, ci fa sudare non poco. Ecco, ancora due
inversioni e scolliniamo sull’ampia sella dove, poco più in basso, sorge il rifugio
Tagliaferri, affacciato sul versante scalvino. Ci voltiamo ancora una volta
verso il versante valtellinese, il tempo è bello, sembra impossibile che possa
arrivare una perturbazione. La Val Belviso si stende sotto di noi e verdi
foreste d’abete fanno da cornice all’immenso specchio d’acqua. Davanti a noi si
mostra un altro lago da record, il lago del Belviso è l’invaso artificiale più
grande di tutte le Orobie. Scendiamo al rifugio, il luogo è austero il
paesaggio che lo circonda non è da meno. Spaliamo la neve per potere entrare
nel locale invernale. È pulito e dotato del solo materiale per dormire, sul
tavolo all’ingresso attrezziamo il nostro angolo cucina ed iniziamo a
sciogliere neve sul fornelletto. Ben presto il rifugio va in ombra e il
termometro precipita velocemente sotto lo zero. Si mangia e si chiacchiera,
riusciamo pure a chiamare casa per dire che è tutto ok e per avere conferma
delle previsioni meteo. Sopraggiunge la notte, usciamo per un ultimo sguardo
che si perde in un cielo limpido e stellato. Questi momenti mi incantano, si
chiude un’altra giornata solitaria in cui tutto è ridotto all’essenziale e la
mente può vagare liberamente. È ora di andare a dormire.
Pasquetta.
Un'alba livida ci accoglie al risveglio. Purtroppo le previsioni meteo ci hanno
azzeccato. Oggi potrebbe anche andare di lusso ma domani arriverà una
perturbazione molto attiva. Come avevamo paventato si cambia programma. Invece di
proseguire verso le valli bergamasche, vagabonderemo ancora ad Oriente. Pochi passi ci
conducono dal rifugio Tagliaferri al passo del Vernano. Che meraviglia,
iniziare la giornata con una discesa. Oltre il crinale, che ci chiude la vista,
c'è una montagna dalle forme eleganti, una piramide che svetta su queste terre,
il Monte Telenek. Da lì si accede ad un luogo mitico per gli scialpinisti della
mia generazione, il vallone delle Rose. Noi ci dirigiamo là. Velature più o
meno consistenti si alternano a qualche schiarita, ma i cieli azzurri dei
giorni scorsi sono solo un ricordo. Baite Radici di Campo, Malga di Campo, lago
di Pisa, attraversiamo nuove valli e nuovi luoghi verso la nostra meta ed
infine eccoci sul monte Nembra, di fronte alla piramide del Telenek. Il Vallone
delle Rose è lì, che ci attende. Al suo termine la valle di Campovecchio
promette una lunga ed infinita passeggiata. Ed infine si torna, con lo
zaino colmo di emozioni, di esperienze e di nuove storie. Mentre gli occhi
riposano nel verde le case di Sant'Antonio si avvicinano. E con l’amico Marco
stiamo già fantasticando e progettando un nuovo vagabondaggio.
Articolo pubblicato su OROBIE Marzo 2020
Nessun commento:
Posta un commento