Marzo 2020
Ho un piccolo cortile triangolare. Un bel
triangolo rettangolo, né troppo piccolo né troppo grande. A giorni alterni, in
pausa pranzo, prendo la bici dalla cantina e giro come un criceto nel mio
cortile triangolare. Non troppo, quindici, venti minuti. Ad ogni vertice cambio
la direzione con un nose press.
All'inizio era tutto goffo, un continuo fermarsi. Lentamente il movimento è migliorato
divenendo più fluido.
Ho una parete esterna della casa fatta di
pietre antiche, blocchi di calcare che testimoniano 600 anni di vite accolte
tra queste mura. Tutte le sere con Leonardo, mio figlio, strizziamo le piccole
tacche e sfioriamo le minerali rughe, senza esagerare, traversi e passaggi. Io
sogno le grandi montagne, lui i boulder
tra i prati di fondovalle.
Quando il lockdown
verrà allentato e sarà possibile fare attività sportiva all'aria aperta,
lontano dalla folla, con il giusto distanziamento sociale, partirò da casa in
bicicletta ritornando tra i monti.
Quindi continuo giorno dopo giorno a girare
come un criceto nel cortile triangolare e sul muro di pietra, sino a quando non
potrò allontanarmi da casa.
Aprile 2020
Al limitare del borgo, a cento metri da casa,
se ne sta arroccata su di un dosso la chiesetta di San Rocco, protettore degli
appestati, dei contagiati, degli emarginati, degli ammalati, dei viandanti, dei
pellegrini, degli operatori sanitari, dei farmacisti, dei volontari. Ed ogni
mattina, quando apro le imposte, la vedo e subito il pensiero va alle tragiche
cronache di questi giorni. Poi accedo la radio e vengo travolto dalle notizie
del contagio.
E tutto ciò contrasta con la bellezza del luogo.
E la luce del giorno inonda la valle.
I ritmi del mondo e della natura si rinnovano
potenti, incessanti avanzano e non si curano delle faccende umane, delle nostre
gioie e dei nostri tormenti. La bellezza della natura non ha pietà, non si
commuove e non partecipa al nostro dolore, alle nostre tragedie.
In questa bellezza trovo ristoro, trovo quiete,
trovo la forza per immergermi nel vivere quotidiano.
Ed il pensiero si fa chiaro e la nostra piccolezza
è un dato di fatto evidente.
Siamo impotenti di fronte alla tragedia e alla
bellezza del mondo.
Maggio 2020
Avevo un’idea da tempo, che vagava da un
neurone all'altro.
Il confinamento da Covid 19 ha fatto impazzire
i due neuroni che, grazie ai tre mesi avuti a disposizione, sono riusciti ad
agganciarsi tra loro e scoprire l’esistenza e l’utilità delle sinapsi. Una
volta connessi non si sono più lasciati, alla faccia del distanziamento
sociale, dell’amuchina, della mascherina e dei guanti. Il post confinamento ha
poi mandato l’impulso al resto del corpo, mettendolo in azione.
Quindi, nell’ordine: la voglia di uscire, le
restrizioni agli spostamenti, le ordinanze di chiusura di alcuni comuni, la
necessità di distanziamento, il divieto agli assembramenti hanno stimolato i
due neuroni che, stretti a braccetto, mi hanno apostrofato "È giunto il momento di partire e di fare. Ricordatelo! Non può essere tutto come prima."
Si abbozza un’idea.
Si tira una linea rossa.
Si parte per un nuovo viaggio a pedali.
Con un refrain fisso in testa: non può essere tutto come
prima.
Questi mesi emergenziali mi hanno portato
ad affrontare ogni questione cercando di spostare il punto d’osservazione, nel
tentativo di avere uno sguardo rinnovato sul mondo e sulle cose.
Ecco, l’idea era già nell’aria, disarmante
nella sua semplicità.
Salire in bicicletta, partire da casa, scalare
una montagna e tornare a casa.
Me lo ero ripromesso durante il lockdown. Non può essere tutto come prima.
Piccole azioni, semplici e concrete, per
ribadire, prima di tutto a me stesso, che dopo tutta questa tragedia non posso
tornare a fare le cose come se niente fosse e non solo nella quotidianità
scandita dai ritmi della famiglia e del lavoro. Con la consapevolezza che ciò
non trasforma il mondo e non risolve i problemi, ma può aiutare a cambiare, a
fare pulizia, a ridurre tutto all'essenziale, insomma a fare delle scelte.
Ho iniziato con un giro bici&sci tra
i Giganti delle Orobie, una specie di tributo a chi non c’è più e alla mia
valle, la Valle Seriana. Qui il virus ha fatto una strage, non solo per la sua
letalità congenita ma per scelte irragionevoli e irresponsabili, per una miopia
manifesta della politica o, per meglio dire, per un’eclatante mancanza della
Politica intesa nel suo senso più elevato: come atto di cura della cosa
pubblica e del benessere di una comunità.
Nel mio comune, Alzano Lombardo, dal 23
febbraio al 27 marzo, 101 sono stati i morti, invece che i 10 dell’anno
precedente, e solo 24 sono ufficialmente deceduti a causa del COVID.
Moltiplicare questi numeri per i mesi del lockdown
e per i comuni della bassa Valle Seriana, mette i brividi, toglie il fiato. Pensare
che dietro ad ogni numero c’è una persona, una perdita, un vuoto da colmare,
reti affettive e familiari lacerate, mi indigna come cittadino e come uomo mi
sento in obbligo di farne anche solo testimonianza.
A questo penso mentre pedalo e torno tra
i monti e mi ripeto: non può essere tutto come prima.
In questo viaggiare voglio sperimentare non
il quanto ma il come, attraversare geografie e territori, incontrare chi ci vive,
senza lasciare tracce ma raccogliendo immagini, emozioni e storie, anche storie
di perdita, di morte e di assenza.
Così ricomincio e continuo a pedalare e
a scalare cercando di dare un senso al mio agire.
Ed è la volta del ritorno sulle
bastionate della Regina, per festeggiare l’anniversario di “A Federico”.
Quarant'anni fa, il 9 e 10 agosto,
l’amico Ennio Spiranelli, giovanissimo, in compagnia di Gigi Rota e Sandro
Fassi, segna una svolta nel mondo dell'arrampicata orobica. I tre, sulla parete
sud della Presolana di Castione, salgono una nuova linea “A Federico”, dedicandola
ad un amico, scomparso, poco tempo prima, per un incidente in canoa. Federico
Madonna era un mio compaesano, i genitori avevano una macelleria in via
Mazzini, vicino alla Basilica, ora c’è la sede del CAF-CGIL. Gli amici mi
raccontano qualcosa di lui “Eravamo giovani. Lui era forte e rivoluzionario,
in aperto contrasto con gli ambienti conservatori di quell’alpinismo classico
di quel periodo” in cava a Nembro
faceva passaggi incredibili e in Val di Mello si aggregò al gruppo dei Sassisti,
era il più veloce di tutti nel risolvere i passaggi più difficili. La prima
salita di “Patabang”, un capolavoro, una linea improteggibile che si sviluppa
sulle placconate di granito della Valle, è sua. Ennio, Sandro e Gigi,
dedicandogli la nuova via, ne consegnano il ricordo alle generazioni future. La
scomparsa si trasforma in presenza, in memoria. Federico ci ha lasciati ma una
traccia del suo passaggio resterà e non solo nel nome di una via d’arrampicata.
La via, a differenza di quanto si faceva
allora, rimane chiodata e con le soste attrezzate a disposizione di chi volesse
ripeterla. Per una ripetizione bastavano una scelta di excentric e dadi (allora
i friends non si usavano e forse non c’erano ancora). “A Federico” diventa una
della classiche moderne più ripetute della Presolana. Ancora oggi è protetta
con soli chiodi e rimane una linea mai banale e che obbliga ad uscire in vetta
per creste e sfasciumi, con una discesa severa e selvaggia. Dieci sono le
lunghezze di corda, la linea è bellissima e la roccia pure, le difficoltà
arrivano al VI+ e al VII.
Quindi per festeggiare l’anniversario
non posso tornare sui bastioni della Regina, come per una ripetizione
qualsiasi. Questi mesi emergenziali mi hanno portato ad affrontare ogni
questione da una prospettiva diversa, nel tentativo di avere uno sguardo rinnovato
sul mondo e sulle cose.
Marco è l’amico e il socio giusto per
queste allegre mattate, lui è a scalare in Val dei Mulini, porta d’accesso alla
Presolana di Castione. Lo chiamo e gli dico che, passati i temporali, lo
raggiungerò per poi salire a dormire in zona rifugio Rino Olmo. Carico la bici
di tutto il necessario per dormire e scalare. Il cielo ad ovest è di un blu
lavato e pulito che profuma di fresco, ad est è ancora nero e temporalesco.
Parto. Scendo in paese e risalgo la valle lungo la ciclabile, attraverso l’altopiano
di Clusone in un tripudio di luce, l’aria è frizzante. Raggiungo Marco a Rusio.
Mentre fa buio saliamo al rifugio Rino Olmo, lui a piedi con il suo zaino, io
in bici con le mie borse. Tra gli abeti le lucciole punteggiano intermittenti
il buio. È notte quando stendiamo i sacchi a pelo contro il muro del rifugio.
Domenica 12 agosto, la Regina si mostra in un tripudio di luce e di colori. Arriviamo
all’attacco, come al solito, le nebbie inghiottono tutto e fa freddo. Scaliamo
sospesi nel nulla, a volte i ghiaioni appaiono ai nostri piedi, a volte sembra
che il sole sia lì, pronto ad uscire, e ne sentiamo il tepore. Le dita si
scaldano subito ed è bello arrampicare: il traverso, la mezzaluna, la
madonnina, il camino, il gran diedro dell’ottavo tiro. Poi le creste e la vetta
e la nebbia che mi disorienta, fatico ad individuare la giusta discesa. E penso
a 40 fa, ad Ennio che, a 18 anni, era con Gigi e con Sandro.
Tornati al Rino Olmo, facciamo due chiacchiere
con i rifugisti. Ci raccontano di questa strana estate, delle misure anti-covid
adottate, dell’impossibilità di gestire i pernottamenti ma delle tantissime
persone salite a trovarli. Centinaia di escursionisti che si sono goduti la
montagna con consapevolezza ed attenzione. Ci gustiamo la compagnia, una tazza
di tè bollente ed una fetta di torta di castagne, squisita a tal punto che Marco,
grande chef, vuole la ricetta. Infine ci salutiamo. Marco rientra a piedi in
Val dei Mulini. Io carico la bici e la spingo sino al passo degli Agnelli.
Un’ultima fatica e poi mi attende una lunga ed infinita discesa su uno dei
percorsi più belli per la MTB. I ghiaioni della Presolana di Castione, il Colle
Presolana, il sentiero delle Capre, che circumnaviga le Corzene, Malga
Cassinelli e il Passo della Presolana. Attraversato l’asfalto riprendo il
sentiero sino a Lantana e poi giù in Val di Tede e i suoi lunghi sterrati sino
ad Onore. Infine la ciclabile. Pedalo lungo il fiume Serio, attraverso la mia
valle che si sta riprendendo, cercando di rimarginare questa ferita invisibile
ed ancora aperta che ha segnato le vite di tante famiglie. I pensieri non sono
allegri, ma questo è, e mi godo il fresco del tardo pomeriggio. La bellezza dei
luoghi e della giornata trascorsa leniscono e aiutano a trovare un senso. È
buio quando attraverso il centro storico di Alzano, mi fermo un attimo nella
piazza della Basilica per riempire la borraccia. Lì vicino c’era la Macelleria della
famiglia Madonna. Quarant’anni sono passati ed il ricordo di quel giovane uomo
è ancora tra noi. Mi siedo per un attimo sui gradini della chiesa, sorseggio l’acqua
fresca della fontanella e il silenzio mi avvolge, un silenzio accogliente che
segna questa sera d’estate. Due persone attraversano la piazza e parlano
sommessamente, il volto coperto dalle mascherine. Non posso non tornare alla
paura che ho respirato a marzo, attraversando la piazza, e al silenzio pesante
di questa primavera. Tutti eravamo chiusi in casa e nemmeno più suonavano le
campane e le ambulanze, a sirene spente, sfrecciavano verso l’ospedale.
Saremo capaci di non dimenticare e di
ricordarci di quanto accaduto in questo tragico 2020? Sapremo uscirne, non
migliori, non peggiori, ma diversi? E mentre queste domande prendono forma e
forza nella mia testa, con la consapevolezza che non potrà essere tutto come
prima, riprendo la bicicletta e affronto con calma la salita sino ad Olera.
Sono le 21 quando varco la soglia di casa, soddisfatto e colmo di stanchezza e di
pensieri.
Uno va ad Ennio, Sandro e Gigi, e ad un
giorno di 40 anni fa.
Uno va a Federico, che non ho avuto la
fortuna di conoscere.
Uno va alla mia valle ferita e a tutti
coloro che ci hanno lasciato.
28 dicembre 2020, Olera – Alzano
Lombardo (BG)
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