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lunedì 28 dicembre 2020

NON PUÒ ESSERE TUTTO COME PRIMA

 Marzo 2020

Ho un piccolo cortile triangolare. Un bel triangolo rettangolo, né troppo piccolo né troppo grande. A giorni alterni, in pausa pranzo, prendo la bici dalla cantina e giro come un criceto nel mio cortile triangolare. Non troppo, quindici, venti minuti. Ad ogni vertice cambio la direzione con un nose press. All'inizio era tutto goffo, un continuo fermarsi. Lentamente il movimento è migliorato divenendo più fluido.

Ho una parete esterna della casa fatta di pietre antiche, blocchi di calcare che testimoniano 600 anni di vite accolte tra queste mura. Tutte le sere con Leonardo, mio figlio, strizziamo le piccole tacche e sfioriamo le minerali rughe, senza esagerare, traversi e passaggi. Io sogno le grandi montagne, lui i boulder tra i prati di fondovalle.

Quando il lockdown verrà allentato e sarà possibile fare attività sportiva all'aria aperta, lontano dalla folla, con il giusto distanziamento sociale, partirò da casa in bicicletta ritornando tra i monti.

Quindi continuo giorno dopo giorno a girare come un criceto nel cortile triangolare e sul muro di pietra, sino a quando non potrò allontanarmi da casa.

Aprile 2020

Al limitare del borgo, a cento metri da casa, se ne sta arroccata su di un dosso la chiesetta di San Rocco, protettore degli appestati, dei contagiati, degli emarginati, degli ammalati, dei viandanti, dei pellegrini, degli operatori sanitari, dei farmacisti, dei volontari. Ed ogni mattina, quando apro le imposte, la vedo e subito il pensiero va alle tragiche cronache di questi giorni. Poi accedo la radio e vengo travolto dalle notizie del contagio.

E tutto ciò contrasta con la bellezza del luogo. E la luce del giorno inonda la valle.

I ritmi del mondo e della natura si rinnovano potenti, incessanti avanzano e non si curano delle faccende umane, delle nostre gioie e dei nostri tormenti. La bellezza della natura non ha pietà, non si commuove e non partecipa al nostro dolore, alle nostre tragedie.

In questa bellezza trovo ristoro, trovo quiete, trovo la forza per immergermi nel vivere quotidiano.

Ed il pensiero si fa chiaro e la nostra piccolezza è un dato di fatto evidente.

Siamo impotenti di fronte alla tragedia e alla bellezza del mondo.



Maggio 2020

Avevo un’idea da tempo, che vagava da un neurone all'altro.

Il confinamento da Covid 19 ha fatto impazzire i due neuroni che, grazie ai tre mesi avuti a disposizione, sono riusciti ad agganciarsi tra loro e scoprire l’esistenza e l’utilità delle sinapsi. Una volta connessi non si sono più lasciati, alla faccia del distanziamento sociale, dell’amuchina, della mascherina e dei guanti. Il post confinamento ha poi mandato l’impulso al resto del corpo, mettendolo in azione.

Quindi, nell’ordine: la voglia di uscire, le restrizioni agli spostamenti, le ordinanze di chiusura di alcuni comuni, la necessità di distanziamento, il divieto agli assembramenti hanno stimolato i due neuroni che, stretti a braccetto, mi hanno apostrofato "È giunto il momento di partire e di fare. Ricordatelo! Non può essere tutto come prima."

Si abbozza un’idea.

Si tira una linea rossa.

Si parte per un nuovo viaggio a pedali.

Con un refrain fisso in testa: non può essere tutto come prima.

Questi mesi emergenziali mi hanno portato ad affrontare ogni questione cercando di spostare il punto d’osservazione, nel tentativo di avere uno sguardo rinnovato sul mondo e sulle cose.

Ecco, l’idea era già nell’aria, disarmante nella sua semplicità.

Salire in bicicletta, partire da casa, scalare una montagna e tornare a casa.

Me lo ero ripromesso durante il lockdown. Non può essere tutto come prima.

Piccole azioni, semplici e concrete, per ribadire, prima di tutto a me stesso, che dopo tutta questa tragedia non posso tornare a fare le cose come se niente fosse e non solo nella quotidianità scandita dai ritmi della famiglia e del lavoro. Con la consapevolezza che ciò non trasforma il mondo e non risolve i problemi, ma può aiutare a cambiare, a fare pulizia, a ridurre tutto all'essenziale, insomma a fare delle scelte.

Ho iniziato con un giro bici&sci tra i Giganti delle Orobie, una specie di tributo a chi non c’è più e alla mia valle, la Valle Seriana. Qui il virus ha fatto una strage, non solo per la sua letalità congenita ma per scelte irragionevoli e irresponsabili, per una miopia manifesta della politica o, per meglio dire, per un’eclatante mancanza della Politica intesa nel suo senso più elevato: come atto di cura della cosa pubblica e del benessere di una comunità.

Nel mio comune, Alzano Lombardo, dal 23 febbraio al 27 marzo, 101 sono stati i morti, invece che i 10 dell’anno precedente, e solo 24 sono ufficialmente deceduti a causa del COVID. Moltiplicare questi numeri per i mesi del lockdown e per i comuni della bassa Valle Seriana, mette i brividi, toglie il fiato. Pensare che dietro ad ogni numero c’è una persona, una perdita, un vuoto da colmare, reti affettive e familiari lacerate, mi indigna come cittadino e come uomo mi sento in obbligo di farne anche solo testimonianza.

A questo penso mentre pedalo e torno tra i monti e mi ripeto: non può essere tutto come prima.

In questo viaggiare voglio sperimentare non il quanto ma il come, attraversare geografie e territori, incontrare chi ci vive, senza lasciare tracce ma raccogliendo immagini, emozioni e storie, anche storie di perdita, di morte e di assenza.

Così ricomincio e continuo a pedalare e a scalare cercando di dare un senso al mio agire.


Agosto 2020

Ed è la volta del ritorno sulle bastionate della Regina, per festeggiare l’anniversario di “A Federico”.

Quarant'anni fa, il 9 e 10 agosto, l’amico Ennio Spiranelli, giovanissimo, in compagnia di Gigi Rota e Sandro Fassi, segna una svolta nel mondo dell'arrampicata orobica. I tre, sulla parete sud della Presolana di Castione, salgono una nuova linea “A Federico”, dedicandola ad un amico, scomparso, poco tempo prima, per un incidente in canoa. Federico Madonna era un mio compaesano, i genitori avevano una macelleria in via Mazzini, vicino alla Basilica, ora c’è la sede del CAF-CGIL. Gli amici mi raccontano qualcosa di lui “Eravamo giovani. Lui era forte e rivoluzionario, in aperto contrasto con gli ambienti conservatori di quell’alpinismo classico di quel periodo” in cava a Nembro faceva passaggi incredibili e in Val di Mello si aggregò al gruppo dei Sassisti, era il più veloce di tutti nel risolvere i passaggi più difficili. La prima salita di “Patabang”, un capolavoro, una linea improteggibile che si sviluppa sulle placconate di granito della Valle, è sua. Ennio, Sandro e Gigi, dedicandogli la nuova via, ne consegnano il ricordo alle generazioni future. La scomparsa si trasforma in presenza, in memoria. Federico ci ha lasciati ma una traccia del suo passaggio resterà e non solo nel nome di una via d’arrampicata.

La via, a differenza di quanto si faceva allora, rimane chiodata e con le soste attrezzate a disposizione di chi volesse ripeterla. Per una ripetizione bastavano una scelta di excentric e dadi (allora i friends non si usavano e forse non c’erano ancora). “A Federico” diventa una della classiche moderne più ripetute della Presolana. Ancora oggi è protetta con soli chiodi e rimane una linea mai banale e che obbliga ad uscire in vetta per creste e sfasciumi, con una discesa severa e selvaggia. Dieci sono le lunghezze di corda, la linea è bellissima e la roccia pure, le difficoltà arrivano al VI+ e al VII.

Quindi per festeggiare l’anniversario non posso tornare sui bastioni della Regina, come per una ripetizione qualsiasi. Questi mesi emergenziali mi hanno portato ad affrontare ogni questione da una prospettiva diversa, nel tentativo di avere uno sguardo rinnovato sul mondo e sulle cose.

Marco è l’amico e il socio giusto per queste allegre mattate, lui è a scalare in Val dei Mulini, porta d’accesso alla Presolana di Castione. Lo chiamo e gli dico che, passati i temporali, lo raggiungerò per poi salire a dormire in zona rifugio Rino Olmo. Carico la bici di tutto il necessario per dormire e scalare. Il cielo ad ovest è di un blu lavato e pulito che profuma di fresco, ad est è ancora nero e temporalesco. Parto. Scendo in paese e risalgo la valle lungo la ciclabile, attraverso l’altopiano di Clusone in un tripudio di luce, l’aria è frizzante. Raggiungo Marco a Rusio. Mentre fa buio saliamo al rifugio Rino Olmo, lui a piedi con il suo zaino, io in bici con le mie borse. Tra gli abeti le lucciole punteggiano intermittenti il buio. È notte quando stendiamo i sacchi a pelo contro il muro del rifugio. Domenica 12 agosto, la Regina si mostra in un tripudio di luce e di colori. Arriviamo all’attacco, come al solito, le nebbie inghiottono tutto e fa freddo. Scaliamo sospesi nel nulla, a volte i ghiaioni appaiono ai nostri piedi, a volte sembra che il sole sia lì, pronto ad uscire, e ne sentiamo il tepore. Le dita si scaldano subito ed è bello arrampicare: il traverso, la mezzaluna, la madonnina, il camino, il gran diedro dell’ottavo tiro. Poi le creste e la vetta e la nebbia che mi disorienta, fatico ad individuare la giusta discesa. E penso a 40 fa, ad Ennio che, a 18 anni, era con Gigi e con Sandro.

Tornati al Rino Olmo, facciamo due chiacchiere con i rifugisti. Ci raccontano di questa strana estate, delle misure anti-covid adottate, dell’impossibilità di gestire i pernottamenti ma delle tantissime persone salite a trovarli. Centinaia di escursionisti che si sono goduti la montagna con consapevolezza ed attenzione. Ci gustiamo la compagnia, una tazza di tè bollente ed una fetta di torta di castagne, squisita a tal punto che Marco, grande chef, vuole la ricetta. Infine ci salutiamo. Marco rientra a piedi in Val dei Mulini. Io carico la bici e la spingo sino al passo degli Agnelli. Un’ultima fatica e poi mi attende una lunga ed infinita discesa su uno dei percorsi più belli per la MTB. I ghiaioni della Presolana di Castione, il Colle Presolana, il sentiero delle Capre, che circumnaviga le Corzene, Malga Cassinelli e il Passo della Presolana. Attraversato l’asfalto riprendo il sentiero sino a Lantana e poi giù in Val di Tede e i suoi lunghi sterrati sino ad Onore. Infine la ciclabile. Pedalo lungo il fiume Serio, attraverso la mia valle che si sta riprendendo, cercando di rimarginare questa ferita invisibile ed ancora aperta che ha segnato le vite di tante famiglie. I pensieri non sono allegri, ma questo è, e mi godo il fresco del tardo pomeriggio. La bellezza dei luoghi e della giornata trascorsa leniscono e aiutano a trovare un senso. È buio quando attraverso il centro storico di Alzano, mi fermo un attimo nella piazza della Basilica per riempire la borraccia. Lì vicino c’era la Macelleria della famiglia Madonna. Quarant’anni sono passati ed il ricordo di quel giovane uomo è ancora tra noi. Mi siedo per un attimo sui gradini della chiesa, sorseggio l’acqua fresca della fontanella e il silenzio mi avvolge, un silenzio accogliente che segna questa sera d’estate. Due persone attraversano la piazza e parlano sommessamente, il volto coperto dalle mascherine. Non posso non tornare alla paura che ho respirato a marzo, attraversando la piazza, e al silenzio pesante di questa primavera. Tutti eravamo chiusi in casa e nemmeno più suonavano le campane e le ambulanze, a sirene spente, sfrecciavano verso l’ospedale.



Saremo capaci di non dimenticare e di ricordarci di quanto accaduto in questo tragico 2020? Sapremo uscirne, non migliori, non peggiori, ma diversi? E mentre queste domande prendono forma e forza nella mia testa, con la consapevolezza che non potrà essere tutto come prima, riprendo la bicicletta e affronto con calma la salita sino ad Olera. Sono le 21 quando varco la soglia di casa, soddisfatto e colmo di stanchezza e di pensieri.

Uno va ad Ennio, Sandro e Gigi, e ad un giorno di 40 anni fa.

Uno va a Federico, che non ho avuto la fortuna di conoscere.

Uno va alla mia valle ferita e a tutti coloro che ci hanno lasciato.

 

28 dicembre 2020, Olera – Alzano Lombardo (BG)



“Questa storia partecipa al Blogger Contest 2020”



martedì 21 aprile 2020

LE TRAVERSIADI - Fuorilegge

Ore 3:30 del mattino. Era il 21 aprile di due anni fa. Primavera 2018.



Con l'amico Marco partiamo, senza sapere esattamente cosa troveremo lungo il cammino e se ce l'avremmo fatta a compiere l'intera traversata delle Orobie, dalla sponde del Lario alle rive dell'Oglio, in Valle Camonica.
Sulla carta i conti tornavano, avevamo pianificato tutto, nel minimo dettaglio: la traccia da percorrere, i metri di dislivello da affrontare, dove fare tappa, cosa mettere nello zaino e la logistica dei rifornimenti con il supporto degli amici. Ma nella realtà tutto poteva essere stravolto: la meteo. la neve, la tenuta fisica, le incognite dei passaggi chiave mai percorsi. Avevamo a disposizione 10 giorni e avevamo previsto 8 tappe, tenendoci 2 giornate jolly. Eravamo pronti anche all'inatteso, a fare fronte ad ogni traversia, a rimescolare le carte e cercare di continuare il viaggio. E con un sacco di dubbi che frullavano nella testa, ma una determinazione incosciente, quella mattina di due anni or sono, siamo partiti per la prima tappa.
Lo scavallamento del Grignone, in quella calda primavera, non era esattamente una tappa sci-alpinistica, era solo un vezzo a cui non volevamo assolutamente rinunciare: per attraversare i monti si deve partire dove questi emergono dalle acque. Partiamo leggeri, con il minimo indispensabile, 21 km di sviluppo e 2500 m di dislivello ci separano dalla cima del Grignone. La partenza da Varenna è surreale, in silenzio esaltato dai contrappunti sonori degli usignoli. E' buio e fa caldo. Prima di Esino ci coglie la luce del giorno, all'Alpe di Moncodeno, finalmente, calziamo gli sci e solo in vetta al Grignone incrociamo le prime persone, sedute a prendere il sole sulla panca all'ingresso del Brioschi. In Valsassina, ci attendono Alberto e Cristina, e nel pomeriggio recuperiamo il furgone. Da domani la "solfa" cambia, inizia la "vera" traversata e gli zaini "veri" sono già pronti con tutto il necessario per tre/quattro giorni, e pesano. Ad Alberto lasciamo le sacche con il materiale alpinistico, i rifornimenti e i ricambi, che ci farà avere a Foppolo, ed un'altra sacca per un eventuale altro rifornimento al Curò.
E in questi giorni di quarantena che nostalgia di quei giorni selvaggi, di quei silenzi, di quelle solitudini, di quella fatica in cui la gioia e la meraviglia si amalgamano nel sudore. Ora come allora nessun contatto, nessun contagio, nessun assembramento, io e Marco alla giusta distanza. Ma questo nostro alpinismo, a più di 200 metri da casa, ora è veramente fuorilegge?

E non vedo l'ora che riaprano i cinema per potere continuare a raccontare questa storia fatta di neve, di sci e di uomini: "Le Traversiadi - Cinque viaggi (più uno) al limite delle Orobie". Nel frattempo mi dedico a mettere tutto nero su bianco con pazienza, in un nuovo progetto editoriale: "ATTRAVERSARE – SCIALPINISMO NELLE OROBIE - Itinerari e Storie"

Amici, a presto.

VERSANTE SUD

#unimmaginedicepiudimilleparole - Spietata bellezza


Al limitare del borgo, a cento metri da casa, se ne sta arroccata su di un dosso la chiesetta di San Rocco, protettore degli appestati, dei contagiati, degli emarginati, degli ammalati, dei viandanti, dei pellegrini, degli operatori sanitari, dei farmacisti, dei volontari. Ed ogni mattina quando apro le imposte la vedo e subito il pensiero va alle tragiche cronache di questi giorni, ancor prima di accedere la radio ed essere travolto dalle notizie del contagio. E tutto ciò contrasta con la bellezza del luogo che risplende nella luce che inonda la valle. E poi, in questi giorni di primavera, si rinnova lo spettacolo. La chiesina e tutto il borgo sono avvolti dalla nube bianca dei fiori di ciliegio, decine e decine di piante in ogni dove. Una spruzzata candida e densa, sparsa attorno alle case e nei prati che a poco a poco sfuma nelle tinte brune dei boschi, dove il carpino ha dischiuso timidamente le gemme, nel verde tenero di giovani foglie, e l'orniello si appresta a dispiegare spighe fiorite, dalle tinte cremose e profumate. Ma ora è la bellezza dei ciliegi che stordisce e lascia ammutoliti, e quel ronzare di vita che ne popola le chiome.
I ritmi del mondo e della natura si rinnovano potenti, incessanti non si curano delle faccende umane, delle nostre gioie e dei nostri tormenti. La bellezza della natura non ha pietà e non si commuove e non partecipa al nostro dolore, alle nostre tragedie. Ma in questa bellezza trovo ristoro, trovo quiete, trovo la forza per immergermi nel vivere quotidiano. Ed il pensiero si fa chiaro e la nostra piccolezza è un dato di fatto evidente, impotenti di fronte alla bellezza del mondo.

Lei è lì, che io lo voglia o no. Lei è lì, che io la sappia cogliere o meno. E non posso non chiedermi, anche questa volta: “Chissà se ne facciamo parte, e in che misura, di tanta bellezza.”


 — presso Olera, Alzano Lombardo.

lunedì 30 dicembre 2019


RESILIENZA
“Bisogna aprire all’ignoto,
bisogna che l’ignoto entri,
e disturbi.”

(M. Duras, "La vita materiale")

Oggi vedremo di farci felicemente disturbare.
Mi è sempre piaciuto sentire vibrare la lingua tra i denti proprio nell'attimo in cui inizio a pronunciare questa parola: resilienza. Oggi il termine è di moda e pure un poco abusato ma il suo significato rimane intatto. Ed è proprio questo che mi affascina ed interessa, ovvero la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi che destabilizzano, l'essere in grado di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, che siano il piccolo imprevisto quotidiano o le dure prove che il vivere ci riserva.
Oggi scomodo questo termine per una questione leggera, non ci sono malattie, lutti o perdite da rielaborate o da attraversare con dolore, ma un semplice ed innocuo imprevisto meteo. Nonostante l'arrivo della perturbazione non abbiamo rinunciato al nostro progetto e il nostro piccolo viaggio è stato destrutturato e ricombinato.


Partiamo. Tappeti di foglie da fare invidia al catalogo Pantone si srotolano sotto le nostre ruote. Gocce di pioggia scivolano sui caschi e sulle giacche. La Valle, che solitamente si percorre a gran velocità sulla statale, si disvela in tutta la sua complessa e sorprendente bellezza: luoghi e paesaggi plasmati dal tempo e dall'uomo, fonti preziose di storia e di storie. Lentamente saliamo. In alto, nel lariceto che profuma di resina, il vento scuote le chiome, una nevicata di piccoli aghi ci avvolge di giallo e di ocra. Poco dopo, tornate dopo tornate, pure le nebbie ci inghiottono. Che strana sensazione, ci siamo solo noi e il silenzio dei monti, non li vedo ma sento il loro respiro profondo e potente. Il nostro, di respiro, è un poco in affanno, e si condensa sui volti. Perdiamo ogni riferimento continuiamo a pedalare, tutto si dilata come in un sogno. Piccoli stormi allegri di cince sfrecciano tra i rami lanciando i loro richiami, ci riportano alla realtà. Bucare le nubi è l'obiettivo della giornata ma ormai non ci speriamo più. Anche loro si alzano con noi e con l'avanzare del pomeriggio. Poche sono le ore di luce disponibili. Poi per incanto ecco il mare di nubi che si stende sotto di noi, in lontananza ghiacciai e cime di granito. Sopra di noi un sole che non scalda e si nasconde tra nubi più alte e che mai potremo bucare. Poco male. Per raggiungere il passo mancano pochi chilometri e ce li godiamo tutti. Respiriamo l'aria fredda e umida. Osserviamo la patina di ghiaccio che copre le acque del laghetto poco prima del valico. Ascoltiamo il canto dell'acqua che prende forza e scende a valle ad ingrossare il torrente.
E mentre fantastico sul viaggio di queste acque, la strada spiana e non c'è più nulla da salire.


Mi fermo.
Ci fermiamo.
Un abbraccio e una stretta di mano con gli amici.
Qualche parola e ci prepariamo per la discesa.
Il paesaggio è severo, di una bellezza austera.
È stata una giornata unica, perché le giornate passate in bicicletta sono tutte uniche per definizione. Abbiamo respirato i colori dell’autunno sotto cieli plumbei, annusato foreste accoglienti, facendoci avvolgere da dense nebbie, galleggiando sopra un mare di nubi tra montagne innevate, attraversando il freddo senza toglierci il piacere di sentire il corpo vivo.
Un pensiero fa breccia nella mente ed una cosa è certa, tutta questa bellezza che ci circonda e ci travolge, ci sopravviverà, noi non ne facciamo parte e nemmeno la meritiamo, siamo solo una piccola e insignificante presenza, uno scherzo dell’evoluzione. Però siamo qua, ora, e non possiamo fare altro che godere di tanta bellezza, tentando goffamente di raccoglierla, trattenerla e farne racconto.
E domani, e dopodomani che sarà?
Tra i monti sarà neve, sarà candore.
Lungo il fiume si vedrà.
E resilienti ci godiamo il qui e l’ora, cogliendo le opportunità, adattandoci a ciò che sarà.





venerdì 24 maggio 2019

FIRST LOVE – Raccontare il passato per trovare il futuro


First Love è un viaggio nella memoria, intimo e tormentato. Un’incursione nel passato, necessaria per ritrovare il Primo Amore e prendersene cura, per poi portarlo con sé in un “corpo felice, estasiato e stanco”.
First Love non è solo il titolo della canzone di Adele con cui Marco D'Agostin apre la sua performance. First Love è anche il titolo del suo spettacolo autobiografico e potente, in cui la componente artistica e quella agonistica si alimentano l’un l’altra, in un crescendo inarrestabile e palpitante di vita.
Primo Amore è l’oggetto delicato e fragile, attorno a cui tutto ruota e con cui lo spettatore è chiamato a confrontarsi.
“Perdonami primo amore, ma sono stanca. Ho bisogno di andarmene per provare di nuovo sentimenti. Per provare a capire il perché” questa è una delle frasi che D’Agostin canta in playback, mentre la voce di Adele satura lo spazio scenico e avvolge il pubblico in sala. Lui va oltre e prova “a capire il perché” in una sfida personale in cui la nostalgia diventa motore della sua ricerca. Da subito chiama in causa il pubblico, testimone di questo Primo Amore, consegnando, ancor prima di entrare in sala, “un risarcimento messo in busta e indirizzato al primo amore”.
Venerdì sera, nello spazio del Teatro Modernissimo di Nembro, mentre attendo l’inizio dello spettacolo apro questa busta e tra le mani mi ritrovo un collage fatto di frammenti di un diario e foto di un album di famiglia. Poi cala il silenzio, D’Agostin è già in scena, sul fondo, in un angolo. Ho il privilegio ed il piacere di essere in prima fila, a pochi metri dal palco, a pochi metri da Marco D’Agostin che, con il corpo e la parola, ci racconta il suo Primo Amore. Vicino a me c’è pure Stefania Belmondo, musa ispiratrice di ciò che sta accadendo sotto il nostro sguardo. Chissà cosa pensa e quali emozioni le crescono dentro, mi chiedo.
Non è la prima volta che vedo uno spettacolo di danza contemporanea e non è nemmeno la prima volta che dovrò salire sul palco del Modernissimo, altre volte ho calcato quello spazio per raccontare della mia passione fatta di montagne, di alpinismo e di momenti di vita verticale. Però, questa sera, anche per me è una prima volta e sono emozionato. Alessandra Pagni e Nelly Fognini, curatrici infaticabili di Festival Danza Estate, mi hanno coinvolto per condurre il dialogo finale con Marco D’Agostin, Stefania Belmondo e il pubblico. Ho accettato, senza esitazione, mi piacciono le sfide ed ora eccomi qui mentre la performance prende forma, pronto a lasciarmi stupire da questo modo di raccontarsi per me insolito.
Fatico ad incastrare nei canoni della Danza Contemporanea quanto accade sotto il mio sguardo. Sul palco vedo molto di più: linguaggi differenti, mutuati dalla danza, dal teatro, dallo sport, si fondono in un equilibrio luminoso e pulsante.

U.S.A. - Salt Lake City. Olimpiadi 2002. C’è una gara di sci da fondo, non una gara qualsiasi, ma una di quelle gare che passano alla storia. Un’impresa titanica in cui la protagonista “contro tutti e contro tutto” vince. E c’è la telecronaca che cresce e si sviluppa con il trascorrere del tempo, sui ritmi e gli accadimenti che si susseguono in quei quindici chilometri a tecnica libera. Questo è il filo conduttore della narrazione: un evento pubblico.
Italia - Valdobbiadene. C’è un ragazzino che segue in TV questa gara, Stefania Belmondo è il suo idolo e lo sci da fondo la sua passione. Il ragazzino coltiva un altro sogno: danzare, ma in quel paese di provincia resta solo un sogno. E allora il ragazzino si ritrova a mimare i gesti del passo pattinato sulle scale e nei corridoi di casa, come fossero passi di danza. Sui campi da sci continua gli allenamenti e le gare, in un ambiente che gli è sempre più estraneo. Questa è la storia sottesa, anticipata dagli indizi presenti nella busta e che ora emerge, come la punta di un iceberg, durante lo spettacolo. La si percepisce, prima confusa e poi sempre più definita, quando D’Agostin arretra e si pone sullo sfondo, non più frontale ma di lato, e le incitazioni del cronista non sono più per la Belmondo; l’inflessione diventa dialettale la voce è quella dell’allenatore e chi spinge sugli sci è il giovane D’Agostin. I ricordi riemergono dalla memoria, in quegli attimi, nella penombra, la fisicità dei gesti e il timbro della voce vibrano in modo particolare quasi con sofferenza.
Poi si torna alle fasi concitate della gara, in cui la voce a volte anticipa e altre rincorre il movimento, in un gioco di rimandi e rilanci.
Mi incanto e mi faccio trasportare dal racconto, mi pare di sentire la fatica di quella gara anche nei miei muscoli e forse anche il ritmo cardiaco un poco sale, mentre i tasselli della storia si ricompongono nella mia mente.
Davanti a me ora c’è un uomo. Il ragazzo è cresciuto, si è preso cura del suo passato e con una consapevolezza matura si è fatto carico del suo Primo Amore. Forse c’è stata una rottura e anni di lontananza ma ora ha coronato il suo sogno negato. Gli è costato tempo e fatica ma adesso è un danzatore, pronto a riconoscere quel suo Primo Amore per quello che è: pietra d’angolo del suo vivere. Pronto a raccontarsi con il suo corpo e la sua voce, con una fisicità e frontalità che non possono lasciare lo spettatore indifferente, chiamandolo a condividere ogni secondo di quei 15 chilometri a tecnica libera e ogni attimo di quei 17 anni che sono passati da quella gara e da quando a passo pattinato sognava di danzare.
Duccio Demetrio apre il suo saggio “Raccontarsi” con queste parole “C’è un momento, nel corso della vita, in cui si sente il bisogno di raccontarsi in modo diverso dal solito. … di raccontare in prima persona quanto si è vissuto e di resistere all’oblio della memoria.” Con First Love questo momento è giunto anche per D’Agostin che ci dona la sua esperienza personale attraverso questa performance, in cui frammenti autobiografici si ricompongono in un racconto inatteso. Storia intima ed epica che va oltre lo spazio ed il tempo, in cui ognuno di noi può riconoscere qualcosa di se.

Ed infine quelle mani alzate verso il cielo. “Che bello!” urla D’Agostin e lo ripete più volte modulando timbro e potenza della voce. Lo ripete più volte variandolo come varia la sua presenza nello spazio scenico, non più frontale ma sempre più arretrata nella penombra, sino a voltarsi, sempre con le mani alzate e sempre cadenzando le due parole “Che bello!”. Ed in queste due semplici parole scandite e ripetute sento la voce di Franco Bragagna cronista di quella gara epica; sento la voce di Stefania Belmondo che vince l’oro e la sua decima medaglia olimpica; sento soprattutto la voce di Marco D’Agostin prima quindicenne davanti alla TV, in quella domenica del 9 febbraio 2002, poi uomo che, nel suo viaggio tra ricordi e memorie, riconosce il suo Primo Amore, lo accetta, lo accoglie, lo racconta e ce lo dona con questo spettacolo unico.
“Che bello!”
E mentre il sole scende e l’oscurità tutto avvolge, la neve copre la scena e il corpo di Marco D’Agostin che, prosciugato da ogni energia e da ogni forza, si abbandona in un angolo, finalmente pacificato con se stesso.
E mentre osserviamo quel “corpo felice, estasiato e stanco” queste due parole riecheggiano ancora nella nostra testa.
“Che bello!”
E mi ritrovo a ripeterle a mezza voce o muovendo solo labbra, per soppesarle e, forse, per farle mie.
E mi rendo conto che lì c’è anche un pezzo del mio vivere.
Anche senza essere fondisti o danzatori, tutti abbiamo avuto un Primo Amore con cui fare i conti, a tutti si è rotto un bastoncino proprio quando avevamo bisogno di quel punto d’appoggio.
“Che bello!” potere riprendere il cammino con un paio di bastoncini nuovi e la consapevolezza che questo Primo Amore ritrovato è anche un pezzo della nostra storia e di quello che siamo oggi.

Olera, domenica 19 maggio 2019

#neve - scriviamo


Viaggiamo, fotografiamo, scriviamo per permettere al mondo non scritto di esprimersi attraverso di noi.
Raccontiamo i luoghi e le persone che li abitano e che li plasmano.
Gli diamo la nostra parola.
Noi siamo strumento.

domenica 30 dicembre 2018

ATTRAVERSARE

Dal sacco piuma mi affaccio sul mondo, la notte è stellata. Con fragore le acque del torrente si riversano nel lago, un riverbero sonoro si propaga nel buio trapunto di richiami, fischi e trilli. Il profumo di resina e di terra zuppa, giunge pungente alle narici. L’odore acre della fatica e dell’adrenalina, restituito dal corpo e dai vestiti, persiste a testimoniare il cammino e le tortuose geografie percorse. Osservo, ascolto, annuso. La neve si scioglie, la natura si risveglia. La primavera avanza prepotente come il giorno che sarà.

Notte di luna e di stelle al lago di Scais
Il tavolo di legno su cui sono steso è duro, oltre il nero profilo degli abeti il cielo è blu profondo, vi immergo lo sguardo e libero i pensieri. Mi concentro sul respiro, lo prendo e lo porto a spasso per il corpo. Risveglio i dolori e gli indolenzimenti che si annidano tra carne, articolazioni ed ossa. Con pazienza cerco di sciogliere le tensioni ma nulla accade. Dopo cinque giorni non posso pretendere di svegliarmi riposato e tonico.
Abbiamo seguito una linea immaginaria attraverso le Orobie, sulle tracce di Franco Maestrini e Angelo Gherardi. I due pionieri dello scialpinismo bergamasco le attraversarono per la prima volta nel 1971. Nella neve abbiamo disegnato il nostro sentiero, una cucitura sinuosa ed effimera a ricamare il candore che veste i monti di casa. Ieri, dopo quattordici ore sugli sci, siamo arrivati spossati sulle sponde del lago di Scais.
Oggi non mi preoccupa la stanchezza ma una sottile angoscia, una lama tagliente tra i pensieri. Cerco di scansarla ma è tutto inutile. È un’inquietudine profonda che fatico a contenere, allora provo a decifrarla. Metto a fuoco le immagini che mi hanno tormentato nel dormiveglia: la lunga scivolata sul pendio ghiacciato, l’ancoraggio della doppia che salta, il versante che collassa in una valanga e mi travolge. Scenari angoscianti misti a brandelli di sonno, ogni azione si trasforma in incubo e volge in tragedia. Rivedo ogni minimo dettaglio, risento i suoni e le voci, tutto è bianco e dopo c’è solo nero e silenzio. Ora sono sveglio. Ricompongo gli incubi in una cornice coerente, ne prendo le distanze. Solo così posso dare un nome alle mie paure, guardarle in faccia e conviverci. L’imprevisto è sempre dietro l’angolo ma se resto consapevole delle mie scelte e sempre disposto a rinunciare, allora sarò in grado di affrontarlo lucidamente.
Oggi ci attende la tappa più impegnativa. Sino qui la vecchia carta con le tracce scialpinistiche di Beniamino Sugliani ci ha indicato la strada. Ora, per superare la corona dei tremila orobici, purtroppo non ci fornisce alcuna informazione. Non ci resta che seguire le scarne indicazioni raccolte dal diario e dal film che documentano rispettivamente le traversate del ‘74 e del ‘80.

Il rifugio Mambretti e le creste dentellate dei 3000 orobici.
Ci alziamo e controvoglia infiliamo i piedi negli scarponi freddi e bagnati. Gli zaini sono pronti, un ultimo sorso di caffè e partiamo. Nessuno parla, ognuno è chiuso nei suoi pensieri. Al rifugio Mambretti lo sguardo percorre l’intero versante nord che incombe tetro sulla vedretta di Porola. Tutto appare ripido e inaccessibile. Le paure riaffiorano, ma io so che si passa. Fra poco, con la prima luce, il percorso apparirà evidente. Non c’è motivo per preoccuparsi, ma dentro di me la parte razionale continua ad azzuffarsi con i miei fantasmi. Mi aggrappo al rumore metallico dei rampanti che mordono la neve, passo dopo passo con un ritmo che tiene compagnia e infonde sicurezza. Gli amici mi staccano, li osservo, sagome in controluce. Folate gelide spazzano il pendio di neve ghiacciata. Il sole si alza sopra i vapori che si dissolvono lungo le creste. Lame radenti di luce riverberano sulla superficie scintillante. Con attenzione continuo a salire, passo dopo passo, curva dopo curva, sino a ricongiungermi agli amici. La bocchetta del Pizzo Porola è poco distante, solo un colatoio di ghiaccio ci separa da quel luogo dove si deciderà la riuscita della traversata. Un intaglio di pochi metri quadrati incastrato tra le rocce: terra incognita, non solo disegno geografico sulla mappa ma, soprattutto, luogo interiore in grado di condizionare il mio sentire e risvegliare paure viscerali.

Alla bocchetta di Porola: terra incognita.
Calziamo i ramponi e saliamo. Il vento è forte, fa un freddo fottuto come mai è stato nei giorni precedenti. Marco giunge alla bocchetta, si volta con un segno di assenso. Arrivo subito dopo. Mi affaccio, il canale è ripido e si perde tra le nebbie. Dovremo prestare attenzione. Si passa. Tutte le preoccupazioni ed i dubbi che mi hanno accompagnato in questi sei giorni, le paure ed i timori che mi han fatto visita nella notte si stemperano. Sorrisi e strette di mano, poi i primi passi in discesa per trovare il posto giusto dove calzare gli sci, infine la sciata liberatoria in cui si sciolgono le ultime tensioni. Ancora parecchia è la strada da fare. Sulla vedretta del Lupo, dopo un ultimo sguardo alla parete discesa, con una rinnovata leggerezza riprendiamo il cammino.

Il Pizzo Porola e il canale di discesa.


giovedì 27 dicembre 2018

sisifofelice e #letraversiadi - Diario di produzione 9 - Sulle tracce di Franco e Angelo.


“SULLE OROBIE COME I PIONIERI – La traversata da Varenna a Carona di Valtellina compiuta da Marco Cardullo e Maurizio Panseri nel ricordo di due grandi scialpinisti, Angelo Gherardi e Franco Maestrini. Il diario di sette giorni sulla neve per reinterpretare l’impresa del 1971 tra imprevisti, emozione e meraviglia.”


Così titola e si apre l’articolo che potete leggere sulla rivista OROBIE di Gennaio, in cui la redazione ha sapientemente fuso immagini, grafica e parole.
Buona lettura.
Nel frattempo Alberto ed io continuiamo a raccogliere testimonianze e costruire il film che sarà: LE TRAVERSIADI.
Questa sera mentre sfoglio OROBIE, cerco di fare ordine in una parte del materiale raccolto. Voglio mettere a fuoco alcuni aspetti perchè domani con Alberto si procede con il montaggio.
Apro e chiudo i file contenenti tutti gli appunti e la trascrizione del mio diario. Rileggo qua e là e mi soffermo su una frase, siamo all'alba del terzo giorno “Ecco, prende forma un’altra certezza. La meraviglia che ci travolge in questi istanti, sono certo, è la medesima che han provato loro. Così come amo pensare che sia medesima la passione che ci spinge a vivere dell’essenziale pur di potere godere di questi monti e compiere l’intera traversata. E me li immagino gli occhi di Angelo, di Franco, di Giuliano e di Jean Paul nel momento in cui vi si riflette il primo raggio del sole nascente. E un poco mi commuovo. Angelo e Franco ci hanno lasciati, Angelo non l’ho nemmeno conosciuto, ma è come se loro fossero lì all’inizio di ogni nuovo giorno e, a volte, mi pare ancora di risentire la voce del Maestrini che mi esorta e mi dice: Dai Panseri! Prima o poi, qualcuno dovrà farla questa traversata! È Bellissima, cosa aspetti.

lunedì 13 febbraio 2017

24 #PICCOLE STORIE - Il ragazzo

“Ma poi, chissà la gente che ne sa,
chissà la gente che ne sa,
dei suoi pensieri sul cuscino che ne sa,
della sua luna in fondo al pozzo che ne sa,
dei suoi pensieri e del suo mondo.
Francesco De Gregori – Il ragazzo
Washington – Olympic National Park – Rialto Beach – Pacific North-West Trail
Il viaggio procede spedito e senza intoppi. La mongolfiera, sospinta dai venti che costanti spirano da nord est, sorvola la distesa d’acqua. L’oceano si stende a perdita d’occhio, in ogni direzione. La costa, da cui è partito nelle prime luci del mattino, ben presto è svanita. Quel grumo di terra e rocce, spazzato dai venti, inesorabilmente è stato fagocitato dalla linea dell’orizzonte, una perfetta sutura tra gli azzurri delle acque e i blu dei cieli. Il ragazzo, regolarmente, eroga gas al bruciatore e, con costanza, controlla l’essenziale strumentazione di bordo: un anemometro, una bussola, un altimetro ed un termometro. Nonostante la sua giovane età non è alla sua prima esperienza di volo, ma questa volta il suo progetto è temerario. Dapprima si era messo alla prova in brevi viaggi, sorvolando i monti e le pianure, seguendo un fiume o sopra i mari ma tenendo la linea di costa sempre in vista. Il tutto si risolveva nell’arco di uno o al massimo due giorni. Ora lo spazio senza limiti che gli offre l’oceano è il palcoscenico della sua prima vera avventura solitaria. Un luccicare raggiante e profondo, scaturisce dai suoi occhi, mentre controlla la carta nautica e fa il punto per verificare la rotta. Con gesti sicuri si sposta nella cesta di vimini. La sua piccola casa volante contiene quanto basta per il suo viaggio. Contenitori e sacche a tenuta stagna sono ben ancorati all’intelaiatura, racchiudono poche cose ben ordinate, essenziali e preziose: il combustibile per cucinare e per il bruciatore, il fornello e le stoviglie, il cibo e le scorte d’acqua, gli indumenti di ricambio e quelli per il maltempo, il sacco piuma per la notte. Quella navicella, sospesa al grande pallone giallo zafferano, sarebbe stata la sua casa sino al giorno in cui avrebbe raggiunto l’Isola. Se i suoi calcoli erano corretti e il maltempo non si fosse messo di traverso, entro la prima decade del mese avrebbe portato a termine la traversata. Il tempo scorre e il sole imperterrito sale, sino allo zenit ed oltre, lentamente prosegue e si abbassa sull’orizzonte. La mongolfiera avanza inseguendone la scia di luce che si stende sulle acque. Il ragazzo è costantemente indaffarato, concentrato nel compiere al meglio ogni cosa, attento. Non c’è spazio per la noia, c’è sempre qualcosa da fare, innumerevoli minuti gesti, semplici e vitali. Controllare gli strumenti, verificare la rotta, dare gas all’erogatore, cucinare, mangiare, bere. Piccole azioni che punteggiano la costante osservazione dello spazio che lo circonda e lo assorbe. I disegni delle correnti sul mare, gli arabeschi delle nubi nel cielo, i colori che inesorabili mutano senza tregua con l’avanzare del giorno e l’incedere della notte. A volte i voli dei cormorani, diretti chissà dove, lo sfiorano mentre, per alcune miglia, condivide la rotta con alcune balene. Ne segue i colpi d’ala sino a quando non si perdono in lontananza, ne ammira l’elegante fluttuare a pelo dell’acqua per poi vederle scomparire nelle profondità.
Spesso, da un cassetto fissato sotto la plancia degli strumenti, dove tiene le carte e fa i calcoli per la rotta, sfila un taccuino e scrive. A volte poche frasi, altre volte si intrattiene più a lungo e riempie intere pagine con una calligrafia minuta e ordinata, leggermente inclinata verso destra.
A volte si ferma e si sfiora le labbra con la sommità della matita. A volte la stringe tra i denti senza lasciare alcun segno nel tenero legno che ricopre l’anima di grafite. Osserva oltre il suo nido di vimini e acciaio, nylon e tela. Assorto scruta il mondo o forse si perde nelle profondità del suo animo, poi, d’improvviso, si rimette a scrivere. La notte si avvicina, notte buia e di luna nuova, solo le stelle a fargli compagnia. Gode degli ultimi raggi di sole che scaldano il viso e riverberano sul giallo fuoco della tela gonfia e tesa. È notte, si scalda qualcosa da bere mentre verifica ancora una volta la rotta. Nel buio il sibilo dell’erogatore pare più potente, mentre le fiammelle blu guizzano e danzano. S’addormenta.
Il corpo è percorso da un tremito. Si risveglia ed è confuso. Fatica a capire dove si trova. È supino a terra, le piastrelle, sotto di lui, sono gelide. La guancia ed il viso sono sudati e appiccicati alle pagine di un libro che gli fa da cuscino. Solleva il capo, sbatte le palpebre e si sfrega gli occhi con il dorso della mano, mette a fuoco le pagine sgualcite del suo atlante geografico e legge “Oceano Pacifico”. Si era addormentato e indistintamente ricorda qualcosa, forse un sogno. I brividi lo scuotono, con le mani solleva il busto dal pavimento, fa per alzarsi ma un conato lo piega in due e lo fa mettere sulle ginocchia. Vomita.
La mamma, richiamata dal trambusto, esce dalla cucina sotto il portico. Scuote la testa e guarda la scena. Il risotto giallo che aveva preparato per pranzo al figlio se ne sta la in una pozza maldigerita sul pavimento, sino all’ultimo chicco. Il figlio alza lo sguarda e la fissa incredulo. E lei impietosa: “Ragazzo! Te l’avevo detto di non sdraiarti a pancia in giù sul pavimento freddo. Adesso, pulisci!”

venerdì 9 dicembre 2016

18 #PICCOLESTORIE

SCRIVERE E' UN PIACERE - UNA GIORNATA DI PIOGGIA

Oggi piove, gocce d’acqua lavano l’aria. Le temperature si sono abbassate, in casa ho acceso il camino. Scrivo ed osservo dalla finestra mentre tu leggi un romanzo davanti al fuoco. Esco sul terrazzo, mi immergo nell’aria fredda e nel rumore della pioggia che cade sugli antichi tetti e sul bosco dormiente. Chiudo la felpa e osservo. Poco dopo rientro e poso una mano tra i tuoi capelli, per una carezza, e ti saluto. Mi cambio ed esco sotto la pioggia. Ora è meno intensa. Corro lungo la mulattiera e salgo al poggio mentre le campane di San Grato invadono con un suono allegro la vallata, richiamando i fedeli a chissà quale cerimonia. Ognuno in fondo ha la sua cerimonia, il suo rito. Questo scampanio mi piace e a lungo mi accompagna. Corro nei colori che si sfrangiano ai mie lati, in un caleidoscopio che tutto raccoglie, miscela e rimanda. Per un attimo vedo distintamente la gemma gonfia, il germoglio delicato, la corolla di un anemone, la scorza gocciolante di una quercia, le foglie che macerano a terra, la selce che affiora dal calcare, lo stillicidio da una roccia aggettante. Migliaia di fermi immagine per il mio sguardo, per un istante solo, immobili, prima di fluire come infiniti fotogrammi. Il mondo e la natura si avvicinano, si fermano per poco negli occhi, mi lasciano e vanno oltre, dietro le spalle. Forse sono loro che si muovono ed io sono fermo. Sento belare, dietro la curva il piccolo gregge è un muro compatto sulla mulattiera, lo attraverso. Lana bagnata sfrega la pelle nuda delle gambe, saluto Costantino, lui mi guarda divertito da sotto il suo ombrello, un rapido scambio di battute e sono oltre, quasi al Casello. Gli occhi corrono più delle gambe, attenti ed ingordi per cogliere di più, sempre di più, e prestano attenzione ad ogni passo, ad ogni appoggio, alla pozza, al fango, alla pietra scivolosa, al ghiaietto sdrucciolo. È incredibile eppure accade. In frazioni infinitesime di secondo il messaggio va dagli occhi al cervello e da lì viene smistato ai tendini, ai legamenti, ai muscoli. La macchina corporea si adatta immediatamente applicando il giusto appoggio, la corretta angolazione, la spinta precisa che deve imprimere per non scivolare e per spingersi avanti nello spazio e nel tempo. Il mondo interiore mi affascina quanto quello esterno. La nostra natura umana e la natura del mondo si parlano attraverso i sensi ed i piedi, in un dialogo serrato e senza fine. L’aria è satura di suoni, i suoni della natura ed i rumori sempre diversi dei miei passi. Passi sul sentiero, sull’asfalto, sulla mulattiera, sull’erba bagnata. A volte le nubi avvolgono il bosco ed oltre il groviglio di tronchi e rami c’è solo il grigiore luminoso del vapore e di migliaia di gocce d’acqua giunte chissà da dove per dissetare questo angolo di terra. Sono fradicio e corro. Penso all’attimo in cui rientrerò nel tepore della casa, penso a te raggomitolata sul divano, davanti al camino. Alla doccia calda che mi attende. A quella sensazione di stanchezza e fatica che invade il corpo dopo ogni corsa ed ogni volta mi fa sentire vivo. Perso nei miei pensieri, continuo a bearmi del mondo che mi circonda e di tutto ciò che mi racconta
.

martedì 29 novembre 2016

17 #PICCOLESTORIE

SCRIVERE E' UN PIACERE - SENTIRSI A CASA


Mi sento a casa tra i miei monti e le mie valli. Mi sento a casa ai piedi del Monte Canto, dove sono nato e cresciuto. Mi sento a casa appeso sul grande scudo della Nord della Regina. Mi sento a casa tra i boschi del Canto Basso, in quel borgo dove ho “messo su casa” e vivo con la mia famiglia. Ma quella sensazione che sta racchiusa nella frase “Ti senti a casa quando …” è legata ad un momento esatto che ogni volta si ripete ed ogni volta mi fa dire: “Ecco! Ora mi sento a casa.”
Sono alla guida del mio mezzo e il nastro d’asfalto corre veloce sotto le ruote, mentre il mondo mi viene incontro ed io mi ci tuffo spavaldo. I guard-rail sfrecciano indistinti ai mie lati. Oltre, in lontananza, si delineano i paesaggi che poi si avvicinano, dapprima lentamente e quindi sempre più velocemente, sino a sfuocarsi, una volta giunti al limite del mio campo visivo, per venire infine risucchiati oltre le mie spalle.
I caselli autostradali si susseguono con regolarità: Brescia ovest, Ospitaletto, Rovato, Palazzolo, Ponte Oglio, Telgate, ed io scruto all’orizzonte il profilo dei monti, cercando le sagome a me più familiari. Eccole iniziano a delinearsi e c’è un momento esatto in cui tutte compaiono: la dorsale del Monte Misma che si affonda nelle dolci curve dei colli di Scanzo; il vuoto della valle Seriana che si insinua tra i rilievi; il lungo crinale che unisce le Podone, la Cima Bianca, il Costone, la Filaressa, il Cavallo, il Canto Basso e il Canto Alto sino a sfumare nei colli della Maresana e di Ranica; in lontananza il Resegone e le Grigne. Penso a tutte le volte che ho percorso quei crinali correndo e osservando la pianura e immagino già il momento in cui, giunto a casa, tornerò a correre lungo quelle linee sospese nel cielo. Il motore gira e il furgone macina gli ultimi chilometri. Gli occhi rincorrono questi profili e inizio a sentire profumo di casa. A volte provo una sensazione strana e mi chiedo: “Ma se il Misma si scambiasse il posto con il Canto Alto? Sarebbe proprio un gran bello scherzo! Quindi mi preparo per qualsiasi evenienza, perché non si sa mai che possa accadere una delle prossime volte”. Nel mentre sorrido a questi pensieri assurdi e pregusto l'attimo in cui mi addentrerò nell’abbraccio di quei monti, per raggiungere casa. Seriate. Esco dall’autostrada, e ripercorro con lo sguardo, per l'ennesima volta, i profili contro il cielo: le creste boscose che dal Canto Alto che scendono verso la Filaressa, per poi risalire alle Podone. Ora sento di essere a casa. Lì, tra quella corona di monti, che abbraccia le valli della Nesa, ho messo le mie radici.
Ogni volta tutto ciò si ripete come un rito. È come se, in quei pochi chilometri, in quegli istanti, mi arrivasse la conferma che il mondo non è cambiato e tutto è come l’ho lasciato. Sono a casa. A breve, ritroverò la strada che esce dal paese, che svolta a sinistra e si infila nel bosco, quindi il bivio e i due tornanti finali, il parcheggio, le due rampe di scale e la mia casa sul limitare del borgo, affacciata sulla vigna e sulla valle. Di sovente, per non dire sempre, la stessa canzone mi torna sulla labbra.
“La casa sul confine della sera,
oscura e silenziosa se ne sta,
respiri un'aria limpida e leggera …
La casa è come un punto di memoria,
le tue radici danno la saggezza
e proprio questa è forse la risposta
e provi un grande senso di dolcezza …”

venerdì 4 novembre 2016

15#PICCOLESTORIE

SCRIVERE E' UN PIACERE – Nella casa dell’infanzia


Nella mia infanzia c’era un oggetto meraviglioso che era strumento di vere e proprie magie, permetteva di portare a compimento i desideri. Non tutti, solo qualcuno. A pensarci ora mi viene da sorridere e mi pare anche un poco ridicolo, questo ricordo. A pensarci bene non saprei nemmeno perché la frase “nella casa dell’infanzia” abbia fatto emergere questo specifico ricordo. Vediamo un poco da che parte iniziare. Della cucina calda e della sala - regno del gelo - già sapete tutto. Ora immaginatevi due cose: le lancette della sveglia appoggiata sul frigorifero, che si avvicinano inesorabilmente alle 4,30, e un pistolino di sei, sette anni, anche un poco cicciottello, che chiede alla mamma di potere vedere la televisione. Ok, cambio di scena.
“Posso vedere la televisione?”. La mamma lancia uno sguardo attraverso lo specchio e dice: “Va bene! Ma stai attento”. Io piccino dalla cucina entro in sala e mi avvicino alla TV, qualcosa di gigantesco che incombe e se ne sta appoggiata su un carrello di legno e metallo dotato di quattro rotelle. Il compito che mi appresto a svolgere è di grande responsabilità – o per lo meno così lo percepivo -  trascinare al caldo della cucina il carrello e la sovrastante televisione, senza fare alcun danno. Carrello e TV se ne stanno incastraste tra due mobili nell’angolo opposto alla porta che unisce i due locali. L’impresa è di notevole impegno e il tragitto tortuoso e stretto, guai seri mi attendono se rovino le cose belle della sala. Con attenzione faccio scorrere il carrello in avanti per potere infilarmi tra l’apparecchio e il muro, quindi stacco la presa della corrente e quella dell’antenna, per fissarle al carrello. Di spingere il carrello non se ne parla nemmeno, questo se ne andrebbe in ogni direzione ad urtare i mobili, quindi lo tiro. Le rotelle sono piccine e fanno le bizze, quando incrociano le fughe delle piastrelle sono sempre pronte a cambiare direzione. Non senza preoccupazioni riesco a percorrere il lato lungo della sala, tra il tavolo e l’armadio basso con lo specchio. Ora devo affrontare un angolo a 90° e poi mi attende il lato corto, dove per mia fortuna non ci sono i mobili ma solo – si fa per dire – il tendaggio che copre la finestra. Percorro il secondo rettilineo e finalmente imbuco la porta, per ritrovarmi in cucina. Ora attacco la spina alla presa della corrente, posizionata vicino alla porta, e stacco dal carrello il rotolo del cavo bianco e semirigido, che il papà ha tagliato della lunghezza esatta, lo stendo ripercorrendo la strada fatta e lo collego alla presa dell’antenna TV. Ecco fatto! Anche questa volta non ho combinato danni. Anche questa volta, dopo avere chiuso la porta della sala. facendo attenzione che il cavo tv non si schiacci, accendo la televisione appena in tempo per godermi “Le avventure di Ciuffettino”.
A volte, ricordo, che mi aiutava anche la mia sorellina, soprattutto per fargli fare la curva, a quel benedetto carello pronto ad andare a sbattere contro i mobili. E poi ricordo che pure la mamma, riposizionato lo specchio e senza smettere di lavorare alla tagliacuce, si godeva la trasmissione. Noi ce ne stavamo seduti al tavolo o sdraiati a terra, sopra i sacchi pieni delle pezze di scarto del lavoro di mamma. Quando Ciuffettino era nella casa del Lupo Mannaro io avevo anche un poco di paura, ma ero grande e non potevo darlo a vedere.


La televisione era certamente una bella cosa ma senza quel carrello col cavolo che avremmo potuto vedere la “Tv dei Ragazzi”. Poi arrivava l’estate e il carrello tornava prepotentemente protagonista, in occasioni particolari, grazie a lui, era festa. Dalla sala si portava il divano sotto il portico, così come le sedie dalla cucina. Si apriva la finestra, che dalla sala si affacciava sul portico, e il carrello, con la sua inseparabile televisione, usciva dall’angolo tra i due mobili e percorreva il tragitto: lato lungo e mezzo lato corto, sino ad affacciarsi alla finestra. Arrivavano pure i cugini e gli zii, non ricordo cosa si guardasse, non era importante, ma l’aria di festa quella la ricordo bene. Magico carrello, chissà che fine a fatto. Ora chiamo la mamma, che sicuramente mi saprà dire qualcosa e certamente si ricorderà un sacco di altri dettagli. Già che ci sono, proverò a chiedere se anche a lei “Le avventure di Ciuffettino” facevano un poco paura.