Ore 3:30 del mattino. Era il 21 aprile di due anni fa. Primavera 2018.
Con l'amico Marco partiamo, senza sapere esattamente cosa troveremo lungo il cammino e se ce l'avremmo fatta a compiere l'intera traversata delle Orobie, dalla sponde del Lario alle rive dell'Oglio, in Valle Camonica.
Sulla carta i conti tornavano, avevamo pianificato tutto, nel minimo dettaglio: la traccia da percorrere, i metri di dislivello da affrontare, dove fare tappa, cosa mettere nello zaino e la logistica dei rifornimenti con il supporto degli amici. Ma nella realtà tutto poteva essere stravolto: la meteo. la neve, la tenuta fisica, le incognite dei passaggi chiave mai percorsi. Avevamo a disposizione 10 giorni e avevamo previsto 8 tappe, tenendoci 2 giornate jolly. Eravamo pronti anche all'inatteso, a fare fronte ad ogni traversia, a rimescolare le carte e cercare di continuare il viaggio. E con un sacco di dubbi che frullavano nella testa, ma una determinazione incosciente, quella mattina di due anni or sono, siamo partiti per la prima tappa.
Lo scavallamento del Grignone, in quella calda primavera, non era esattamente una tappa sci-alpinistica, era solo un vezzo a cui non volevamo assolutamente rinunciare: per attraversare i monti si deve partire dove questi emergono dalle acque. Partiamo leggeri, con il minimo indispensabile, 21 km di sviluppo e 2500 m di dislivello ci separano dalla cima del Grignone. La partenza da Varenna è surreale, in silenzio esaltato dai contrappunti sonori degli usignoli. E' buio e fa caldo. Prima di Esino ci coglie la luce del giorno, all'Alpe di Moncodeno, finalmente, calziamo gli sci e solo in vetta al Grignone incrociamo le prime persone, sedute a prendere il sole sulla panca all'ingresso del Brioschi. In Valsassina, ci attendono Alberto e Cristina, e nel pomeriggio recuperiamo il furgone. Da domani la "solfa" cambia, inizia la "vera" traversata e gli zaini "veri" sono già pronti con tutto il necessario per tre/quattro giorni, e pesano. Ad Alberto lasciamo le sacche con il materiale alpinistico, i rifornimenti e i ricambi, che ci farà avere a Foppolo, ed un'altra sacca per un eventuale altro rifornimento al Curò.
E in questi giorni di quarantena che nostalgia di quei giorni selvaggi, di quei silenzi, di quelle solitudini, di quella fatica in cui la gioia e la meraviglia si amalgamano nel sudore. Ora come allora nessun contatto, nessun contagio, nessun assembramento, io e Marco alla giusta distanza. Ma questo nostro alpinismo, a più di 200 metri da casa, ora è veramente fuorilegge?
E non vedo l'ora che riaprano i cinema per potere continuare a raccontare questa storia fatta di neve, di sci e di uomini: "Le Traversiadi - Cinque viaggi (più uno) al limite delle Orobie". Nel frattempo mi dedico a mettere tutto nero su bianco con pazienza, in un nuovo progetto editoriale: "ATTRAVERSARE – SCIALPINISMO NELLE OROBIE - Itinerari e Storie"
Amici, a presto.
VERSANTE SUD
Visualizzazione post con etichetta LE ALPI OROBICHE. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta LE ALPI OROBICHE. Mostra tutti i post
martedì 21 aprile 2020
venerdì 2 gennaio 2015
PICCOLE STORIE #12
DISPENSATORI DI SOGNI
Qual è il futuro della nostra associazione? È difficile
dirlo, è difficile saperlo. Una cosa però è certa, in questo momento storico il
mondo dell’associazionismo, e non solo il nostro, sta attraversando un periodo
di crisi legato, principalmente, alla mancanza di partecipazione e di ricambio
generazionale. Più volte il nostro Presidente, nei suoi editoriali, ha
sollevato il problema con chiarezza e determinazione, interrogandosi e
interrogandoci, invitando ciascun socio a dedicare qualche attimo del suo tempo
alla nostra associazione. Le risposte sono state timide e i volti di chi
organizza e si mette in gioco sono sempre i soliti, le facce nuove, che
ringraziamo sentitamente, sono purtroppo poche.
La questione assume contorni preoccupanti soprattutto se
guardiamo i numeri. La nostra sezione, nonostante la lieve flessione di
iscritti dello scorso anno, conta oltre 10.000 soci. I corsi e le gite,
proposte dalle commissioni e dalle scuole, sono sempre frequentate con assiduità e molto spesso
fanno il tutto esaurito. La palestra d’arrampicata pure, addirittura con
problemi di sovraffollamento in alcune fasce orarie. Se dovessimo fermarci ai
numeri potremmo dire che siamo in gran salute, mentre invece così non è. Se
facciamo il rapporto tra chi fruisce dell’attività proposta dalla nostra
sezione e chi la organizza, otteniamo dei valori completamente sbilanciati. Con
la consapevolezza delle poche forze in campo, mosse da una grande passione,
disponibilità e professionalità, i risultati sono stupefacenti e quindi, a
maggiore ragione, dobbiamo interrogarci sul perché di questa situazione così
squilibrata. Sono tantissime le persone che si avvicinano al mondo della
montagna e alle bellezze della natura grazie al nostro club ma pochi sono
quelli che si appassionano a tal punto dal dedicare una parte del loro tempo per
diventarne promotori verso gli altri.
Perché accade questo? Perché a chi partecipa alle gite, ai
corsi, alle serate, non arriva il messaggio che quello di cui godono è il
frutto del lavoro volontario di altre persone che, come loro, amano la
montagna? Forse siamo noi che sbagliamo e che non riusciamo a comunicare
correttamente un concetto basilare: essere associati non vuol dire essere
utenti, il CAI è un’Associazione di volontari e non un Agenzia di
professionisti.
Quindi se vogliamo uscire da questa situazione di stallo e
se desideriamo trovare una risposta a tutte le domande fatte sinora, dobbiamo
prima di tutto dare una risposta a quest’ultima domanda: “La nostra
associazione, il CAI, è un erogatore di servizi o un dispensatore di sogni?”
Ripartire da questa domanda - e dalle risposte che ognuno di
noi si darà - penso sia importante per trovare il giusto equilibrio nelle
proposte che faremo ai nostri associati, per affrontare da una nuova
prospettiva e con fiducia l’anno che ci aspetta.
martedì 30 settembre 2014
PICCOLE STORIE #11
“ … così come pieghe, rughe, espressioni scavate dalla felicità
o dalla malinconia non solo segnano un viso, ma sono il viso di quella persona,
che non ha mai soltanto l’età o lo stato d’animo di quel momento, bensì è
l’insieme di tutte le età e gli stati d’animo della sua vita.”
Claudio Magris “L’infinito viaggiare”
A volte al termine di un giorno di scalata, osservo le mani
con attenzione. Solo a volte, non sempre. Lentamente tolgo il nastro che
sostiene alcune falangi indebolite dall’uso e dal tempo. Lo sporco mette in
risalto ogni minima forma, ferita e screpolatura. Qualche grumo di sangue
rappreso impreziosisce le nocche o fa da corona alle unghie. La pelle appare
come una mappa dove ossa, tendini e vene disegnano i rilievi mentre le pieghe e
le linee, tutti i graffi e le vecchie cicatrici, incidono in profondità come valli. Le
mani, similmente ad una carta topografica, restituiscono la geografia di una vita. Le
mani, le mie mani, le mani di ciascuno di noi. Oggi è stata una lunga giornata,
vissuta in verticale. Loro, le mani, hanno fatto un grande lavoro. Ora, mentre
riposo sospeso sul vuoto, le esamino nel dettaglio, a lungo. Le muovo lentamente
per meglio comprenderne il paesaggio. Ripenso alle migliaia di appigli che hanno
cercato, carezzato e stretto con forza. Guardo la terra e la polvere che si è
infilata sotto le unghie, qui, dall’alto di questa parete. “Sporcarsi le mani”
è un modo di dire che mi è sempre piaciuto. Avere le mani sporche non mi dà
fastidio anzi, mi piace, non le nascondo, non me ne vergogno. Con soddisfazione
pregusto il momento in cui, al primo torrente, alla prima sorgente, le
immergerò nell’acqua fresca e, sfregandole con energia, torneranno pulite. Chilometri
di roccia sono passati sotto queste mani, la sento tutta questa roccia, come
rivedo ogni insetto che vi si è posato e sento ogni mano che ho stretto, ogni
carezze data. Sento lo srotolarsi di una vita. Tempo che si stratifica sulla
pelle. Pelle che non porta solo i segni di oggi, ma che ha memoria ed è frutto
delle mille pietre sfiorate. Mani come espressione di una geografia complessa e
profonda in cui scorgo le mani di chi mi ha preceduto e intravedo quelle di chi
verrà.
domenica 29 giugno 2014
PICCOLE STORIE #10
Miss Lily - 8a+ - Cornalba |
“Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla
pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio.
Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro.
(Italo Calvino – Lezioni americane)
Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro.
(Italo Calvino – Lezioni americane)
“Io credo che la montagna sia semplicemente un posto di pace, un luogo
che mi permette di vedere le cose secondo una prospettiva diversa, – Nico
Favresse fa una breve pausa per cercare le parole esatte e poi continua - la montagna mi offre una prospettiva diversa.”
Sean Villanueva, il suo compagno di avventura, aggiunge: “La montagna è un ottimo mezzo per saggiare i tuoi limiti mentali e
fisici, ma soprattutto è un ottimo modo per sentire il potere della natura e
del mondo.” Riprende Nico: “Nessuno
mi obbliga a fare tutto questo. Quando parto per una grande parete so
esattamente cosa mi aspetta: il freddo, la fatica, gli zaini pesantissimi, le
bufere, le lunghe attese, il pericolo. Tutto ciò non ha nulla di eroico e non è
questo che voglio raccontare.” Anche quest’anno i due alpinisti, ospiti per
la terza volta de “Il Grande Sentiero”, evento patrocinato dalla nostra
associazione e organizzato da LAB80, hanno raccontato, con leggerezza e
intensità, le loro avventure verticali. Durante i quattro giorni dell’evento,
scanditi da incontri con il pubblico e momenti di arrampicata collettiva, ciò
che ha calamitato le attenzioni di un pubblico variegato e composto non solo da
alpinisti, sono stati i toni scanzonati e a volte dissacratori con cui hanno
narrato le loro storie. Accompagnandosi con la musica, tra una risata e un
applauso, bandendo ogni tecnicismo e tono retorico o autocelebrativo, Nico e
Sean ci hanno trasportato tutti in parete, trattenendoci lì per giorni e giorni,
tra momenti di arrampicata e improbabili concertini chiusi nelle portaledge
sospese nel vuoto, mentre fuori infuriava la bufera. Abbiamo quindi ascoltato
Sean che, con il suo improbabile italiano, ci ha fatto rivivere, con
trepidazione e una grande risata finale, il momento più drammatico della sua
attività alpinistica, quando su una grande parete, dopo giorni di scalata, una
raffica di vento gli ha strappato di mano l’ultima scorta di carta igienica.
Ciò che resta di questi incontri è quel senso di leggerezza che dovrebbe accompagnare ogni nostra azione, e quella determinazione tenace nel perseguire le proprie passione e dedicarsi a queste seriamente, con competenza e attenzione, senza mai prendersi troppo sul serio, con la giusta dose di ironia. Che sia nel nostro andare in montagna o nelle azioni quotidiane è importante tornare a valle, o arrivare alla fine di una giornata, con la consapevolezza del proprio agire, cercando di trattenere la gioia che scaturisce dall’avere vissuto attimi unici.
Ciò che resta di questi incontri è quel senso di leggerezza che dovrebbe accompagnare ogni nostra azione, e quella determinazione tenace nel perseguire le proprie passione e dedicarsi a queste seriamente, con competenza e attenzione, senza mai prendersi troppo sul serio, con la giusta dose di ironia. Che sia nel nostro andare in montagna o nelle azioni quotidiane è importante tornare a valle, o arrivare alla fine di una giornata, con la consapevolezza del proprio agire, cercando di trattenere la gioia che scaturisce dall’avere vissuto attimi unici.
giovedì 20 febbraio 2014
PICCOLE STORIE #9
![]() |
Monte Vaccaro – sabato 8 febbraio 2014 – 08:36:42 |
…scrutare quelle emozioni che le parole
dicono, ma non raggiungono …
…l’aria, quell’incerta natura dissolta tra respiro e orizzonte,
che abbraccia e accompagna qualsiasi cammino…
(Angelo Andreotti “La faretra di Zenone”)
…l’aria, quell’incerta natura dissolta tra respiro e orizzonte,
che abbraccia e accompagna qualsiasi cammino…
(Angelo Andreotti “La faretra di Zenone”)
Ormai ne
sono convinto “Un’immagine dice più di mille parole”, ma se le parole fossero
usate come immagini cosa succederebbe? Come in un gioco di specchi si
moltiplicherebbero in riflessi infiniti. Parole usate non per descrivere
immagini ma per ampliarne la percezione in un caleidoscopio di emozioni
travolgenti, in un rimando di continue evocazioni. Ci sono luoghi e attimi in
cui una linea netta non taglia, ma unisce in un margine mondi e realtà solo
all’apparenza differenti, che inaspettatamente si confrontano dialogando tra
loro. Spazi lontani che, se osservati da prospettive privilegiate, d’improvviso
si uniscono. L’uno prende forza e vigore dall’altro, senza l’uno, l’altro non
avrebbe ragione di esistere.
D’inverno salgo spesso questa montagna e sino dalla prima volta mi ha colpito la visuale insolita che da qui si coglie. Guardando a est, nell’aria tersa del mattino, lo sguardo precipita immediatamente oltre il profilo del pendio sino a fermarsi, mille metri più in basso, nelle forme dell’altopiano. Di solito si è circondati da crinali digradanti, che si alternano e si susseguono come quinte di un palcoscenico, sfumando nei toni del grigio e del violetto, come a volere mettere una maggiore distanza tra la frenesia del vivere e le pause di quiete vissute tra i monti.
D’inverno salgo spesso questa montagna e sino dalla prima volta mi ha colpito la visuale insolita che da qui si coglie. Guardando a est, nell’aria tersa del mattino, lo sguardo precipita immediatamente oltre il profilo del pendio sino a fermarsi, mille metri più in basso, nelle forme dell’altopiano. Di solito si è circondati da crinali digradanti, che si alternano e si susseguono come quinte di un palcoscenico, sfumando nei toni del grigio e del violetto, come a volere mettere una maggiore distanza tra la frenesia del vivere e le pause di quiete vissute tra i monti.
Anche oggi
sono fuggito dagli impegni e mi sono preso il mio tempo per tornare proprio qui
e cercare questo orizzonte, in cui la quotidianità del vivere si fonde con
eleganza alla pulsione verso la ricerca di spazi di solitudine e libertà. Sono
partito all’alba e i miei scarponi hanno calpestato pietre di una strada
antica. Alla chiesetta, su croste di neve, calzo gli sci e salgo tra baite e
roccoli, sino a incontrare la neve caduta nella notte. Nel bosco ammantato di
bianco incrocio i primi raggi del sole e proseguo nel freddo degli ampi
pascoli, dove sprofondo nella neve fresca sino alle ginocchia. Nel candido
silenzio salgo e ascolto il suono della neve, sul ritmo del respiro e il
battere del cuore. Mi volto ad oriente, mi fermo. La linea è lì, davanti ai
miei occhi, ecco l’immagine che cercavo. Oltre un bordo immacolato, punteggiato
da abeti dormienti, appaiono prati verdi segnati dalle traiettorie di strade e
filari, dai volumi di case e capannoni. Immobile ascolto sino a percepire i
rumori che salgono dall’altopiano, dei luoghi dove si vive, si studia e si
lavora, dove ci si riposa, ci si incontra e si crea. In apparenza quel mondo
sostiene questo mondo, ma da quassù le prospettive si rovesciano e per un
attimo ne sono certo. È questo mondo, fatto di silenzi e montagne, che sostiene
il mondo del nostro agire quotidiano e che da qui trae forza e senso.
Entrambi mi appaiono volti diversi del medesimo vivere. Con lo sguardo incollato a questa linea, riprendo il cammino e mentre i pensieri si acquietano, la musica della neve torna prepotente.
Scarica il PDF - Le alpi orobiche n 87 - marzo 2014
Entrambi mi appaiono volti diversi del medesimo vivere. Con lo sguardo incollato a questa linea, riprendo il cammino e mentre i pensieri si acquietano, la musica della neve torna prepotente.
Scarica il PDF - Le alpi orobiche n 87 - marzo 2014
domenica 8 dicembre 2013
PICCOLE STORIE #8
Abdica e sii il re di te stesso
(Fernando Pessoa)
Anche solo per un attimo. Un attimo che duri un’eternità
|
La corda scorre tra le mani. Mentre assicuro la progressione dell’amico, riguardo la placconata di grigio calcare che ho appena salito. Ripercorro la sequenza dei buchi, i gesti, le incertezze e i timori, i brevi e infiniti viaggi tra una protezione e l’altra. Oggi ho fatto bene a prendermi un giorno di ferie, lasciare tutto e tutti, giù in fondovalle. Prendersi il tempo è un’impresa titanica, ma riprendersi il proprio tempo è indispensabile, e finalmente salgo tra le guglie di questa montagna, per staccare dall’eterno presente in cui tutti siamo quotidianamente immersi. Salgo e osservo le quinte dei monti che emergono dagli strati di nebbia, e lascio che il mondo continui la sua corsa, oggi non correrò con lui. Solo fermandomi mi rendo conto di questa affannosa rincorsa. Così concentrati sull’istante e occupati a cogliere ogni attimo, non ci accorgiamo che gli istanti, gli attimi non li stiamo cogliendo, ma solo sfiorando. Solo qui, solo ora, ne sento l’intenso profumo, l’intimo pulsare. I sensi si aprono su tutto ciò che mi circonda, eppure laggiù tutto continua a correre. Osservo il cielo di un blu profondo, tela su cui il volo dei gracchi disegna traiettorie uniche ed irripetibili. Con lo sguardo seguo il profilo della parete che si inarca verso il cielo, in una curva elegante e precisa. Il compagno, scomparso oltre lo strapiombo, è arrivato in sosta, sciolgo i nodi, le corde vanno in tensione, e inizio a scalare. Ora è impossibile sentirsi incalzati e preoccupati di non arrivare in tempo per cogliere l’attimo successivo. Non mi resta che cogliere questo attimo e tenermelo stretto, ora non lo lascerò andare sino a quando non l’avrò vissuto sino in fondo. Arrampico lungo il pilastro, poco dopo abbandono la roccia calda per immergermi nella zona d’ombra, il freddo mi avvolge, mi entra dentro. Il tempo scorre lento, ne assaporo ogni secondo. Nel mentre, laggiù in fondo alla valle, un flusso continuo di fatti e notizie, a volte di sole chiacchiere, scaturisce incessante dai media e viene amplificato dal web. Ma ora, qui tra le pieghe della montagna, non è importante. I giornali, la tv, il pc, il tablet e lo smartphone, sono restati laggiù, dove le nebbie invadono la pianura e si insinuano nelle vallate. Non sento alcuna urgenza di sapere, nessuna ansia mi coglie, al mio rientro, se vorrò, questi strumenti risponderanno alle mie domande, ad ogni mia curiosità. Riemergo nel sole e arrivo in sosta godendone il tepore. La roccia è superba e obbliga ad una scalata elegante, ogni movimento deve essere misurato. Tanti sono gli appigli e gli appoggi, non tutti servono, è obbligatorio fare delle scelte per individuare la giusta combinazione che ci permetterà di salire. Quindi non tutto è importante e pochi sono gli appigli giusti da utilizzare. Ugualmente, quando torneremo a valle, soffermiamoci solo sull’essenziale e su ciò che è prioritario per noi. Fissiamo un capo delle corde alla sosta e le lanciamo nel vuoto, iniziamo a scendere. Tornati a terra, sfiliamo l’ultima doppia e riponiamo il materiale nello zaino. Ci sediamo nell’erba ai piedi della parete e chiacchieriamo. Poco dopo ci incamminiamo verso valle, soddisfatti e sempre più convinti che sia doveroso sapersi fermare e prendersi il tempo per dedicarsi intensamente ai propri amori, alle proprie passioni. Una pausa necessaria in cui fare selezione, ordine e, come uno scultore, procedere nel togliere il superfluo dal blocco di marmo per farne uscire le forme nascoste. Tornati a valle cercheremo di non farci travolgere e di porre sempre attenzione alla qualità del nostro vivere, concentrandoci su ciò che veramente ci emoziona e ci fa stare bene. Mentre riponiamo gli zaini nel bagagliaio, i nostri sguardi si alzano un’ultima volta verso le bastionate di calcare avvolte dalle tinte del tramonto. Fermarsi e riprendersi il tempo è un piacere che dovremmo concederci sempre più spesso, per tornare ogni volta con più energia nel flusso degli eventi.
Iscriviti a:
Post (Atom)