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lunedì 22 maggio 2017

30 #PICCOLESTORIE – Le mani di Simone e il Melloblocco

È passata una settimana dalla due giorni che ho vissuto al Melloblocco e le buone vibrazioni provate continuano a farmi compagnia. La magia dell’evento è certamente legata al luogo, alla perfetta organizzazione e alla grande e consapevole partecipazione di tutti i “sassisti” e non. Ma una cosa è certa, senza nulla togliere a tutti quanti, se non ci fosse stata la scintilla iniziale, la grande passione e la costante dedizione di una persona in particolare tutto ciò non sarebbe possibile. Quattro anni fa mi sono ritrovato a scrivere un articolo sul Qualido e su Simone Pedeferri e alla fine anche di Melloblocco si era parlato. Sono andato a riprendere gli appunti di quel giorno passato con Simone e le sue mani che srotolano e mi mostrano il disegno originale della decima edizione del Melloblocco sono ancora vivide nella memoria. E chissà quali altri blocchi scoprirà per la prossima edizione, con quali sorprese ci stupirà.

“Le mani di Simone si muovono nell’aria con decisione ed eleganza, gesti rapidi e precisi scanditi da pause e accelerazioni, si alternano in una danza sinuosa e imprevedibile. A volte sembra plasmino l’aria come fosse materia, altre volte che accarezzino una tela, oppure che stiano stendendo strati di colore. Le osservo, si fermano a mezz’aria, mentre le dita si muovono come stessero sfiorando la pietra, sino a quando, trovata la giusta posizione, si stringono attorno a piccoli appigli fatti di cielo, da cui iniziare la scalata.
… Simone prende dei giganteschi rotoli di carta e li distende sul pavimento, li guarda soddisfatto. Da una certa distanza risalta evidente la figura di un uomo, ma quando mi avvicino comprendo che quell’uomo non è altro che la geografia della Valmasino, compresa la Valle dei Bagni e la Val di Mello. Mi chino ancora di più e non finisco di sorprendermi nel cogliere i dettagli e di vedere disegnati uno ad uno i massi granitici che realmente si trovano nella valle, con le loro forme esatte e le linee tracciate sulle loro piccole pareti. “Questo è il disegno originale che ho fatto per l’ultimo MelloBlocco – dice soddisfatto Simone – la manifestazione che organizziamo ormai da 10 anni e che porta nella valle migliaia di persone, un’esperienza unica nel suo genere.” Poi, mentre mi indica i dettagli del disegno, le sue parole diventano una musica di sottofondo e mi perdo nel guardare le mani di Simone che si muovono sul disegno come se stesse dipingendo, come se stesse arrampicando.”
#melloblocco #simonepedeferri

giovedì 22 settembre 2016

UN VITA, IN SOLI TRENTAPASSI

UN VITA, IN SOLI TRENTAPASSI
"Penso che la montagna, per chi come noi la ama, non faccia che amplificare il nostro stato d'animo, la gioia e la felicità quando si è contenti, la tristezza e la nostalgia quando si è abbattuti. Ma se non si è predisposti a vivere questi momenti, le cime, i boschi, i sentieri, le rocce o la neve sono muti e sembrano non volerti più accettare e capire." (Roberto Ciri)


Ci siamo da poco incamminati verso la nostra meta, i passi scandiscono il tempo e il cammino si intreccia alle parole. “Sono nato a Foligno nel 1968 e nella mia famiglia non vi era alcuna tradizione di montagna. – così esordisce Roberto - Da ragazzo, se escludiamo un paio di passeggiata con mio padre, le montagne erano solo un mondo rappresentato nelle cartoline. Non immaginavo minimamente che si potessero salire per raggiungerne la vetta”. Le sue parole mi incuriosiscono e sono una premessa decisamente interessante per la nostra intervista in cammino. per conoscere lui e la sua grande passione che lo ha portato tra i monti e a creare e fare crescere i progetti web www.vienormali.it e www.3000dolomiti.it. Così continua: “Era il 1990, avevo 22 anni quando, universitario a Padova, ho scoperto che le montagne si potevano salire e scalare. Ho iniziato in Dolomiti e nelle Prealpi Vicentine, solo quando la passione per la montagna aveva ormai Intaccato in modo irrimediabile l’animo, sono tornato negli Appennini per esplorarli soprattutto nella stagione invernale.”
Roberto ha al suo attivo la salita di oltre 400 cime ma ciò che rende interessante ed unica la sua attività è il fatto di avere messo a disposizione il suo bagaglio di conoscenza, in modo preciso ed efficace, sia nel mondo del web che, più recentemente, in un progetto editoriale ricco e articolato.
La sua professione nel campo dell’informatica, come consulente nel settore del web marketing per aziende e per professionisti, unitamente all’amore per la montagna, gli ha fornito strumenti idonei a strutturare un sito che ad oggi è di assoluto riferimento per gli appassionati di montagna in cerca di informazioni sulle vie normali delle Alpi, degli Appennini e delle isole.
“Le vie normali sono da sempre una passione sia in termini escursionistici che alpinistici. In questa ricerca non sono interessato all’estremo in termini di difficoltà e impegno tecnico – e continua – ma ad una ricerca storica che mi porti ad una maggiore conoscenza della montagna. Ripercorrere i medesimi luoghi dove la storia dell’alpinismo e quella locale hanno preso forma è affascinante. Questi luoghi raccontano, se li sai osservare e interrogare con curiosità e attenzione.
Quando si parla di vie normali solitamente il pensiero va alle vie di salita delle grandi montagne, dalla normale al Monte Bianco a quella del Cervino, ovvero alla linea più semplice per giungere sulla vetta di una montagna difficile. Nella realtà anche la montagna più semplice ha la sua via normale di salita, non per forza si deve essere alpinisti. Per raggiungere la cima di moltissime montagne basta essere escursionisti con tanta voglia di camminare e la curiosità di scoprire nuovi orizzonti. Per questo motivo oggi non ci troviamo lungo una via normale di una grande montagna, tra ghiacciai tormentati o su una cresta sospesa nel vuoto, ma stiamo percorrendo il facile sentiero che ci porterà sulla vetta della Corna Trentapassi.
Lentamente saliamo, sul limitare del bosco si intravede la croce posta sul culmine e non posso non chiedergli cosa significa questa montagna per lui. “La cima della Corna è un bel punto in cui appollaiarsi, rimanere lassù a guardare il panorama e pensare un poco.” Roberto torna spesso su questa montagna in ogni stagione e in ogni ora del giorno e della notte, per una veloce corsetta, quando il tempo è tiranno, o per godersi il tramonto. Le vie normali, mi racconta, sono almeno tre. La breve e semplice salita da Cusato, in comune di Zone, l’impegnativo sentiero attrezzato con tratti di ferrata che percorre, partendo da Toline, la spettacolare cresta nord, oppure il sentiero che sale da Vello e che ormai è diventato il classico percorso della Vertical Race. Insomma la Corna Trentapassi è una montagna che offre una bella scelta di vie normali, una per ogni versante, e con infinite varianti e raccordi. Sicuramente su questi sentieri non si è definita la storia dell’alpinismo ma una storia fatta dalle persone semplici che sulle sue pendici hanno vissuto, allevando il bestiame e tagliando il bosco, e dalle numerose piccole storie fatte di emozioni e di un vissuto che ogni escursionista ha potuto assaporare durante la salita. I ricordi di Roberto, quelli che lo legano a queste creste, sono infiniti. “Quando giungi dal lungolago la Corna sembra una piramide compatta che affonda le sue radici nel blu profondo delle acque del lago. Poi inizi a salirla e a conoscerla, ad esplorarla e a restarne ogni volta stupito. Ne percorri le creste e le valli, i boschi e le praterie, piano piano ti rendi conto che l’immagine monolitica che avevi si frammenta, come in un caleidoscopio, in infiniti mondi, ognuno con le sue peculiarità e le sue caratteristiche.”
Mentre colgo l’emozione che vibra nel suo racconto ci avviciniamo alla cima, dove tutto converge nello spazio ampio della vetta. In silenzio percorriamo l’ultimo tratto e al cospetto della croce ci fermiamo. Lo sguardo spazia in ognidove per finire sempre con il perdersi a scrutare le increspature e i riverberi della acque del lago. In quelle acque le ripide pendici della nostra montagna si inabissano e da quelle acque, la montagna stessa, prende slancio ed energia per proiettarsi verso il cielo. Durante la sosta Roberto continua a spiegarmi il perché di questo progetto. “Lungo le vie normali, quelle semplici ma non conosciute e relazionate, su cui non vi è alcuna traccia, sei obbligato a pensare nel medesimo modo dei primi salitori. Si torna un poco pionieri cercando il percorso più logico lungo il versante. Tutto ciò mi affascina, siamo nell’era del digitale ma restano ancora spazi da esplorare, a condizione che ci si ponga nel giusto stato d’animo e con il desiderio di lasciarsi stupire”.
Dalle sue parole e navigando in rete scopro che il sito Vienormali.it è partito dalla passione diventando un progetto e in parte anche un lavoro. Roberto ha iniziato nel 2005 mettendo a disposizione, in un data base chiaro e facile da navigare, le sue oltre 200 relazioni. Da allora, in oltre 10 anni, si è costituito un bel gruppo di alpinisti/escursionisti che lo hanno affiancato nel lavoro e, sulla base di regole chiare e condivise, caricano le loro relazioni. Ad oggi sono circa 2900 le cime toccate, oltre 2500 le vie normali, 200 le vie di roccia, 150 le ferrate e 20 le vie di ghiaccio descritte. Negli ultimi anni è partito pure un progetto editoriale con “Idea Montagna – Editoria ed Alpinismo” che lo ha portato, in collaborazione con altri amici, a pubblicare ben sei guide, dedicate alle montagne lombarde e alle Dolomiti, mettendo a frutto il ricco bagaglio di conoscenza e informazioni di cui dispone.



Il tempo passa ed è giunta l’ora di scendere, Roberto parla in modo pacato e nel contempo determinato. “Sono 26 anni che vado in montagna e la passione e la motivazione restano le medesime. Tanti sono i cantieri in corso e i progetti per il futuro.” Prima di incamminarci gli chiedo se c’è una via normale che sente più sua o lungo la quale ha vissuto qualcosa di particolare e indelebile. “Molte son le vie normali a cui son legato e non saprei sceglierne una in particolare, ma ciò che amo di più è un sentiero e non una via normale, il sentiero da San Liberale al Pian della Bala sul Monte Grappa nelle prealpi Vicentine, quello è stato il mio primo sentiero percorso, era il 1990 e lì è nata la passione da lì ha avuto inizio il mio essere uomo di montagna. Da quel giorno non mi sono più fermato.” Ora tace e il silenzio ci avvolge, lo osservo mentre il suo sguardo accarezza la superficie del lago e si perde nelle sue profondità.

Pubblicato su "OROBIE" - 2016

Per conoscere Roberto Ciri www.vienormali.it

COL PIERO IN PARADISO

COL PIERO IN PARADISO
Dalle creste della Filaressa al Pizzo Paradiso






Il Piero, prima che mi accompagnasse in Paradiso, per me era solo una presenza virtuale, quello che per molti, ancora oggi, è PieroWeb.
È impossibile anche per noi, che non siamo certamente la generazione dei nativi digitali, non esserci imbattuti nel PieroWeb. Se in google cerchiamo informazioni sulle escursioni nelle Orobie, se digitiamo il nome di una cima o di un sentiero, è certo che nelle prime schermate ci troveremo un rimando a www.pieroweb.com.
Il sito, attivo dal 2001, è un vero e proprio portale che già fa trasparire l’indole e il carattere del nostro personaggio. Non è un’asettica raccolta di centinaia di escursioni e di tutte le info utili per organizzare ogni tipo di gita sulle Orobie, molti sono i contributi degli amici. Ci sono relazioni, racconti, immagini, musica, link che rimandano ad approfondimenti, cartografie, altri siti; c’è pure un canale You Tube e una pagina di Facebook molto frequentata. Navigando si ha la sensazione di essere presi per mano e accompagnati lungo i sentieri e tra i monti, grazie anche ad una ricca ed esaustiva documentazione fotografica.
Finalmente, in un pomeriggio d’inverno, ho la fortuna di conoscere il Piero. Fissiamo il nostro primo appuntamento. Per la nostra prima chiacchierata in cammino ci ritroviamo a percorrere il crinale che separa le nostre due case, i due paesi in cui viviamo. Camminando viene tutto più semplice, più naturale. Condividere i passi è il modo migliore per conoscerci e per me, raccoglitore di storie, ascoltare i suoi racconti fatti di passione, di montagne e di amicizia. Il Piero è nato e vive a Zogno, da lì parte per le sue scorribande nelle vallate bergamasche e alpine. Sostiamo sulla cima della Filaressa e quindi proseguiamo oltre, giunti sulla cima del Costone mi indica il suo paese e tra i tetti, che si affastellano attorno alla parrocchiale, quello di casa sua.
Con la sua voce briosa e irrequieta mi racconta dei suoi progetti e delle sue numerose attività, è piacevole ascoltarlo e cogliere la sua particolare visione delle cose sempre proiettata verso il futuro, verso ciò che ci attende e ciò che può accadere, il tutto amalgamato da curiosità ed energia.
Piero - 73 anni, sposato e padre di due figli -  affonda le sue radici e vive da sempre in quel pezzo di Valle Brembana che si stende ai nostri piedi. Laureato in Lettere, per 30 anni è stato professore, di cui 25 presso le scuole medie di Zogno. Ancora oggi è il riferimento per molti dei suoi ex alunni, per alcuni di loro è diventato “Il Prof delle Orobie”. Nel 2000, arrivata la pensione, finalmente può dedicarsi alle sue passioni: alla montagana, alla fotografia e all’informatica. Nell’arco di un anno le tre cose si fondono e danno origine al progetto “ObbiettivOrobie”, ovvero il portale di PieroWeb.com, che quest’anno compie 15 anni.
Con lo sguardo percorriamo le cime delle Orobie elencandole in un gioco di rimandi in cui ognuno aggiunge un tassello, il nome di una cima, la quota di un colle. In lontananza gli indico la mole del Pizzo dei Tre Signori e poi l’evidente incisione della Bocchetta d’Inferno e lui rilancia: “… e dopo l’inferno c’è il paradiso”. Io non colgo a cosa alluda il gioco di parole e dopo la bocchetta faccio notare l’inconfondibile profilo triangolare del Pizzo di Trona. Piero non molla e mi dice che la sua non è una battuta ma che quel profilo tondeggiante, tra la Bocchetta d’Infermo e il Pizzo di Trona, ha un nome e si chiama Pizzo Paradiso. Lo guardo stupito e gli confesso di non sapere nulla della sua esistenza. Piero mi guarda e dice: “Allora l’estate prossima ci andiamo insieme a fare un giro”.
Il tempo passa e l’estate arriva, puntuale arriva anche il Piero e con una telefonata mi invita in Paradiso. Qualche giorno dopo mi ritrovo, con lui e alcuni suoi amici, lungo la strada che sale ai Piani dell’Avaro, al punto di partenza del sentiero per il rifugio Benigni. Piero mi accoglie come se ci fossimo salutati ieri sera ed il cammino non si fosse mai interrotto in questi mesi di lontananza. Imbocchiamo il sentiero e sul ritmo dei passi riprendono i racconti. Piero ha sempre amato camminare ma prima di andare in pensione tra gli impegni familiari e di lavoro non riusciva a dedicarsi con costanza a questa passione. “Sono fortunato” mi dice sorridendo “Sono andato in pensione presto e in questi 15 anni ho avuto la possibilità di coltivare le mie passioni e di scegliere a mio piacere le giornate per andare in montagna”. Mentre chiacchieriamo cammina con regolarità, mai veloce e con un passo costante e attento, la Valle Salmurano si apre davanti a noi. Piero decide di salire verso la Bocchetta di Trona passando sotto le pendici settentrionali del Pizzo Giacomo. Io lo seguo senza riserve e gli chiedo se vada mai a spasso da solo. “Preferisco – dice Piero, mentre sale la ripida traccia - andare in montagna in gruppo, con gli amici, anche se non mi dispiace camminare da solo. Quando sono solo mi sento libero di scegliere a mio piacere la meta, il passo, le soste. Da solo, per questioni di sicurezza, scelgo percorsi facili e brevi, anche per non mettere in ansia i familiari a casa.”
Il tempo scorre, come scorre il sentiero sotto i nostri passi, e ci ritroviamo alla bocchetta, dove ci godiamo una sosta per uno spuntino ed un sorso di the. Ci guardiamo attorno godendoci il silenzio e i panorami che si aprono sul versante valtellinese. Rompo il silenzio: “Piero! I luoghi che attraversi cosa ti raccontano?” Ci pensa un attimo come se stesse raccogliendo le idee: “I luoghi che attraverso, come questo angolo di mondo su cui siamo affacciati, mi raccontano della bellezza del creato, fatto di montagne, di piante e animali ... mi meraviglio che tanta bellezza la si possa trovare appena fuori casa. Mi stupisco nel riscoprire ogni volta che esistano ancora ambienti incontaminati, dove la natura e le sue forze regnano sovrane.” Poi tace.
Riprendiamo il cammino e scendiamo verso il lago Zancone, senza raggiungerlo, per poi risalire verso il lago Rotondo. Piero mi racconta di quanto per lui sia significativo condividere queste sue esperienze e di come internet sia stato utile per veicolare la sua passione e fare conoscere le centinaia di escursioni compiute: Mi piace pensare che le escursioni che mi soddisfano possano interessare anche ad altri appassionati di montagna. Mi piace pensare che le belle emozioni da me provate le possano provare, ugualmente, anche altri. E poi l’apprezzamento da parte di tanti appassionati di montagna del lavoro svolto mi gratifica e mi stimola a continuare con passione.” Piero non è un collezionista seriale di cime, lo vedo meglio nei panni di un buongustaio che si gode ogni pietanza e nello stesso modo organizza le sue uscite e con gli amici se le gode senza fretta, senza affanni, con una semplicità estrema e genuina. Tra le tante parole a un certo punto ha detto una cosa che mi ha colpito: “Oltre il sentiero cerco ... il respiro del corpo, della mente, dell’anima.” Se devo sintetizzare in due parole quali sono i riferimenti di Piero e del suo camminare, mi verrebbe da dire: piacere e scoperta.
Mentre rifletto sul senso di queste due parole, il sentiero lentamente perde forza e si spiana, depositandomi nella conca del lago Rotondo, nel cui specchio d’acqua si riflette la piramide del Pizzo di Trona. Lì, di fronte a questo spettacolo, ho la conferma di come siano calzanti le parole “piacere” e “scoperta” all’andare per monti di Piero. Lui si volta, mi guarda e sorride; come fosse il custode di quel regno con un gesto del braccio e la mano aperta, mi mostra le montagne che ci circondano, mi indica la ripida traccia che porta alla sella e da li sulla cima del Pizzo Paradiso.

Dopo una breve pausa ripartiamo. Sull’erto pendio, che ci conduce alla vetta, poche ed essenziali sono le parole e restano soltanto gli sguardi che non riescono a nascondere la soddisfazione di essere giunti sino lì. Una volta sulla cima, ci stringiamo la mano e ci sediamo nell’erba. Ora ho un’ultima domanda per Piero: “Cosa senti in momenti come questo?” Lui ci pensa un attimo, mi pare indeciso e mentre lo sguardo si perde lontano: “L’emozione è forte, quando raggiungo la cima, specie se mi ha comportato fatica. In vetta provo gioia, soddisfazione, orgoglio, ... e finalmente mi rilasso mentre mi godo il panorama. Poi penso che non vorrei più scendere e sono dispiaciuto del tempo limitato che mi resta per godere di tutte queste emozioni. – Piero si volta  verso me e mi fissa con gli occhi che sorridono e infine esclama – Nessuno vorrebbe lasciare mai … il Paradiso



Pubblicato su "OROBIE" - 2016

Per conoscere Piero Gritti www.pieroweb.it

CAMMINARE SULLE ACQUE ALTE

CAMMINARE SULLE ACQUE ALTE
Con Cristian Riva ai laghi di Valgoglio

“Adoro la montagna. Risalire lentamente i suoi ripidi versanti, percorrere quei tortuosi sentieri tra i fitti boschi e le ampie distese prative. Adoro tutto ciò che l’avvolge e la rende speciale. Con la fotografia mi illudo di rubare l’emozione di quel preciso momento vissuto sui monti, un’emozione che porterò sempre con me.” Cristian Riva


Ieri abbiamo camminato nelle terre alte o per meglio dire sulle acque alte. Nove i laghetti che abbiamo lambito con i passi e sfiorato con lo sguardo. Quattro i compagni di cammino: Cristian, Marco, Camillo e Michele. Millecentocinquanta i metri di dislivello macinati dalle gambe, tredici i chilometri percorsi al battito del cuore e cinque le ore in cui i polmoni hanno prelevato ossigeno dal cielo. Questo è stato il nostro giro dei laghi di Valgoglio, lungo un sentiero che si srotola ad anello, seguendo un percorso che dalle fitte abetaie ci ha proiettato oltre le bastionate rocciose al cospetto del Monte Pradella ed affacciati sulla Valle Seriana.
Un luogo fatto di acque e rocce, dove il fascino degli spazi naturali si è fuso con gli evidenti segni che l’uomo ha lasciato, al fine di sfruttare la forza generatrice dell’acqua: condotte, dighe, case dei guardiani, canali, tralicci. Un luogo da narrare che è cornice di una storia, un modo insolito ma familiare per raccogliere il racconto di una passione e di una vita.
Questo è accaduto ieri ed oggi sono qui davanti allo schermo luminoso del mio portatile per ripensare e dare forma alle intuizioni che ho avuto mentre i miei passi erano i suoi, mentre il mio sguardo era il suo. Digito il suo nome in un motore di ricerca e vado diritto sul suo sito, una home-page elegante con una intestazione semplice ed efficace “Cristian Riva - Sui sentirei con lo zaino ed una reflex” proprio di Cristian vi voglio raccontare. Già da una prima occhiata appare chiaro che il nucleo della passione è lo sguardo che lui ha sul mondo e il desiderio di trasmettere, con l’esattezza e la precisione dell’immagine fotografica, l’emozione di un istante. Nel sito di istanti ce sono centinaia perché, ad uno sguardo attento, centinaia sono le occasioni per raccogliere la meraviglia: dalle scalette che si inerpicano sui colli di Bergamo sino alle alte cime delle Orobie, dai borghi nascosti nelle pieghe delle vallate alpine ai panorami dolomitici. Sfogliando virtualmente le pagine si coglie una particolare attenzione per il dettaglio, un occhio attento sia allo scorrere delle stagioni che al restituire le vicissitudini della storia ed i segni che questa ha lasciato tra i monti. Navigo e mi perdo tra le pagine, continuo a sfogliarle. Sulle labbra mi affiora un sorriso quando ritrovo una citazione di Walter Bonatti, una di quelle frasi che conosco e che sento anche mia “Da quassù il mondo degli uomini altro non sembra che follia, grigiore racchiuso dentro se stesso”. Cristian, ovvero la persona che emerge da queste pagine, è esattamente la stessa persona che ieri camminava al mio fianco, una combinazione di sensibilità e di attenzione. Tra le pagine trovo il racconto della gita ai laghi di Valgoglio, esattamente il nostro percorso di ieri, leggo ed osservo le immagini, vengo rapito e mi ci perdo dentro, ogni scatto racconta e conduce in quei luoghi sospesi. Il reale si è fuso al virtuale, il cammino e il sudore di ieri nella placida navigazione di oggi, il cielo terso e i riverberi delle acque nella luce azzurrognola riflessa dallo schermo del pc nel buio della mia cucina. In questo gioco di rimandi i miei pensieri si perdono e inizio a dubitare che tutto ciò sia accaduto e mi chiedo se io lì ci sono stato veramente. Ecco che la mia attenzione viene richiamata dal tasto “Libro di vetta”, sposto il cursore e faccio un click. Si apre una pagina in cui è possibile lasciare un proprio pensiero, lì trovo la conferma che tutto è accaduto e che il nostro cammino ci ha portato realmente a specchiarci in quegli occhi liquidi aperti verso il cielo: “Ilaria – Mercoledì, 09 Settembre 2015 – 12:53 – Abbiamo avuto la fortuna di incontrarti durante il giro dei laghi di Valgoglio, ti ringraziamo ancora per essere sempre una grandissima fonte di ispirazione! Ilaria e Alex”. Ieri effettivamente abbiamo incontrato Ilaria e Alex e queste due semplici righe restituiscono pienamente il senso della passione di Cristian. Passione che non è solamente il motore di questa sua costante tensione verso le montagne, mosso dal desiderio di fermare il tempo in un click, ma è anche voglia di condividere questo bagaglio di emozioni. Condividere tramite il web per essere stimolo ad altri affinchè, incuriositi dalle proposte e ammaliati dalle sue immagini, si infilino lo zaino in spalla per ripercorrerne i medesimi passi.
Se nove sono i laghi non potevano essere che nove gli spunti per chiacchierare durante il cammino con Cristian.
Si prende il via dalla località Bortolotti, la condotta forzata indica il cammino, la seguiamo, ed oltre il bosco si supera la bastionata rocciosa per giungere al pianoro dove sorgono le costruzioni dei guardiani delle dighe. Ci concediamo una breve sosta e mentre ripartiamo chiedo a Cristian da dove nasce la passione per la montagna. “Forse da sempre! – esordisce - Da piccolo, volente o nolente, “dovevo” seguire i miei genitori nelle classiche camminate verso il Calvi e i Gemelli. Poi, nel mezzo dell’adolescenza, trascorrevo le vacanze estive sull’altopiano di Selvino, punto di partenza per quelle che allora mi parevano le cime più alte del mondo: le Podone, la Cornagera, la Filaressa, il Pioeto ed il Purito. Lentamente, senza che me ne accorgessi, la passione dei miei genitori è diventata anche la mia. Ora, come fosse un “testimone”, la passione per la montagna è qualcosa che sto cercando di trasmettere anche alle mie due figlie, Valentina e Giorgia di 20 e 13 anni. Con loro, e naturalmente con mia moglie, ho ripercorso gli stessi sentieri di un tempo, verso i rifugi, verso il Calvi ed i Gemelli.”
Proseguiamo e la traccia torna ad essere ripida ci alziamo di quota e sotto di noi si scorgono lo Stagno Molta e il lago Resentino. In fila indiana proseguiamo diretti alla Capanna Giulia Maria, oggi siamo in tanti e tutti abbiamo voglia di chiacchierare. È fuori di dubbio che è meglio muoversi in compagnia, anche per motivi di sicurezza, e solleticato sul tema della solitudine ecco cosa ci racconta Cristian: “Scelgo spesso la camminata solitaria. Pur non disdegnando la compagnia, che molto spesso mi ha permesso di imparare moltissimo dagli altri. Però camminare da solo mi regala un qualcosa in più che altrimenti andrebbe perso. Adoro quel costante silenzio dal quale affiorano pochi e preziosi rumori, quelli che la quotidianità non mi permette di ascoltare. Il suono del vento che asciuga il sudore, quello dei passi tra le foglie d’autunno, il rumore della natura che si risveglia o il frusciare improvviso di un animale selvatico in fuga. Ma il suono più prezioso è quel rumoreggiare interiore, fatto di domande e risposte, di riflessioni sospese che solo il camminare in solitudine fa emergere dal tuo profondo”
Mentre procediamo verso il lago Canali, sulle cui sponde sorge la Capanna Lago Nero, l’incontro con Ilaria e Alex, sposta il discorso sul perché avverte questo bisogno di raccontare e condividere le proprie emozioni. “È talmente esplosiva la carica che accumulo durante un’escursione, dalla semplice passeggiata lungo le scalette di Bergamo, sino al tetto orobico del Pizzo Coca, che mi è impossibile tener dentro di me tutto questo “ben di Dio”. Per evitar di esplodere, devo condividere e rendere partecipe chiunque di questa bellezza e felicità.” Presso il lago Nero ci fermiamo e mentre ci guardiamo attorno e lasciamo che il sole asciughi il sudore, si parla delle montagne di mezzo mondo su cui abbiamo camminato e arrampicato: “La bellezza e la felicità di cui parlavo,- afferma Cristian - non le si trova per forza i capo al mondo o chissà dove, ma sono proprio qui vicino, dietro l’angolo a due passi da casa. Bisogna solo guardarsi attorno e lasciarsi stupire. Guarda che meraviglia questo lago, sembra un diamante nero incastonato tra le rocce.”

Un attimo di silenzio e si riparte. Al lago di Aviasco tocchiamo il punto più alto dell’escursione. Togliamo gli zaini dalle spalle e ci concediamo uno spuntino mentre i discorsi continuano e le voci si accavallano. Immancabilmente si parla delle cime scalate e dall’intima soddisfazione che questo gesto regala: “Ogni vetta, - racconta Cristian - facile e o difficile, mi regala sempre pochi metri di spazio e qualche brandello di tempo che, anche se scomodi e fugaci, mi fanno sentire seduto su un trono proiettato sul Creato. Un trono dove mi siedo con rispetto rivolto verso quell’azzurra ed irraggiungibile lontananza, immensamente appagato e soddisfatto, emozionato e gioioso.” È ora di ripartire  e ci attendono ancora quattro laghi, il primo che incontriamo è il lago Campelli Alto, anche qui si vede con evidenza il lavoro dell’uomo, quello dei pastori che si spingono sino qui con le greggi e quello per la costruzione degli sbarramenti e della canalizzazioni. “Vedi – mi dice – questi, come gli altri luoghi che attraversiamo spesso raccontano storie, storie di fatica e di lavoro, storie che si perdono lontane nel tempo e storie recenti fatte di amore e di fede. Però stiamo perdendo la capacità di leggerne i segni, troppo presi dai ritmi convulsi che la nostra società ci impone”. Mentre si chiacchiera arriviamo sulle sponde del piccolo lago Campelli Basso, sembriamo dei collezionisti anche se restiamo convinti che ciò che conta sia la qualità del cammino: “Ciò che cerco ogni volta sono dei colli e delle cime adeguate alle mie possibilità e in grado di darmi buone e ricche soddisfazioni. Non amo le competizioni.” Poco oltre inizia la scalinata ricavata nella roccia che scende ripida al lago Cernello e all’omonima baita gestita dal Cai di Alzano Lombardo. Con questa luce, propria degli ultimi giorni d’estate, e l’aria tersa dell’alta quota, di fronte a noi si apre un panorama strepitoso e il massiccio della Presolana, inconfondibile, segna l’orizzonte. “La vedi? – mi chiede – La Presolana è la montagna del mio cuore, senza alcun dubbio. La cerco con lo sguardo dovunque mi trovi, non solo sulle alte cime delle Orobie ma anche dal luogo di lavoro. Dovunque io sia lei resta per me un punto di riferimento, la mia casa!” 



Al rifugio ci fermiamo per un’ultima sosta, prima di scendere al lago Sucotto e da lì rientrare a Valgoglio. Prima di avviarci chiedo a Cristian un’ultima cosa “Oltre il sentiero, cosa cerchi?” ci pensa un attimo e poi: “Cerco ciò che è bello e può rendermi felice. Un amico prete, Don Diego, durante una telefonata, nel corso della quale stavamo prospettando l’idea per una uscita montana insieme, mi disse una cosa semplice, forse banale, ma per nulla scontata e che mi è sempre rimasta dentro: …dobbiamo circondarci del bello, di ciò che ci rende felici e gioiosi, solo così potremo a nostra volta regalare un sorriso e donare felicità …”

Pubblicato su "OROBIE" - 2016

Per conoscere Cristian Riva www.cristianriva.it

domenica 30 novembre 2014

#6 PARETI E RACCONTI - Benigno, alpinista a KM0


GRIGNONE – parete ovest - Benigno Balatti racconta.


Questa mattina abbiamo un appuntamento a Mandello Lario. Benigno ha promesso di portare Matteo e me in un posto a cui è particolarmente legato, lo Zucco Sileggio. Una cima sospesa sopra il lago, una meta per nulla alpinistica, ma con un panorama decisamente esclusivo. La vista sul lago, come da tutte le montagne di questa zona, è impagabile ma, come ci fa notare Benigno, questo è l’unico punto da dove si può avere una visione frontale del parete ovest del Grignone. Parete di cui lui conosce ogni anfratto, ogni segreto e che noi desideriamo esplorare in sua compagnia. Però ora andiamo con ordine.
Benigno Balatti, classe 1954, parla con calma e la sua voce fluisce senza sosta con quella cantilena tipica dei paesi della sponda lecchese. Chiacchierando è evidente il forte legame che lo unisce a Mandello, paese dove è nato, cresciuto e, ancora oggi, vive. Paese nelle cui fabbriche ha lavorato come operaio e sulle cui montagne si è formato come alpinista. La sua casa è posta a monte della linea ferroviaria, anche se si vede il lago, i binari costituiscono una specie di confine tra due mondi. Così spiega Benigno: “Ci sono i Laghei e quelli sopra la ferrovia, sopra siamo i Montanari. Io vado anche al lago ma non sono capace nemmeno di nuotare, preferisco andare nei boschi, preferisco la montagna in tutti i sensi, non solo arrampicata, non solo alpinismo estremo ma anche andare per funghi, camminare, insomma rilassarsi.” Mentre parla prende lo zaino e usciamo di casa, ci avviamo lungo la strada verso la mulattiera che, oltre le ultime case, sale tra gli alberi spogli del bosco. Benigno sorride e ha uno sguardo mobile e irrequieto, da persona curiosa. Le sopracciglia spesso si inarcano in un espressione di meraviglia, disegnando sulla fronte rughe profonde e regolari. La sua voglia di raccontare le mille storie vissute tra le sue montagne è prorompente e travolge, questo suo entusiasmo è contagioso e trascina. Mentre camminiamo, quando siamo nei pressi del Santuario di Santa Maria, mi guarda e dice: “Pensa te, come cambiano le cose. Un tempo, fino a qualche hanno fa, ero uno che non parlava o parlavo poco. Ora invece ho voglia di raccontare e non mi importa di quello pensa la gente, se vogliono mi ascoltano, altrimenti … - si interrompe e ridacchia, per poi esclamare in dialetto – rimango sempre ù selvadec”.
Benigno ha scalato in tutte le Alpi e si è pure concesso alcune spedizioni extraeuropee, soprattutto in sudamerica. Il suo terreno prediletto è quello dell’alta montagna. Se parliamo del solo Monte Disgrazia, lì ha salito ben venti nuovi itinerari di ghiaccio e misto. Oggi però la storia che gli chiedo di raccontare è quella del suo alpinismo a Km 0, quello fatto partendo direttamente da casa a piedi e con lo zaino in spalla. Quell’alpinismo che dalle sponde del lago lo ha portato a vagabondare sui versanti più selvaggi delle Grigne, sino a scoprire le linee effimere che d’inverno compaiono sulla parete ovest della Grigna settentrionale e che conducono immancabilmente al rifugio Brioschi, arroccato sulla vetta della montagna.
Ormai è da più di un ora che camminiamo, sulla ripida traccia che risale il crinale verso lo Zucco di Tura e da lì al Sileggio ci troviamo sospesi nel sole. Alla nostra sinistra le acque del lago, increspate dal vento, si stendono come un nastro ad incastrarsi tra i monti, alla nostra destra, ammantate di neve e avvolte nell’ombra, le Grigne si offrono in tutta la loro bellezza. Sostiamo, ci sediamo nell’erba secca. Benigno, mentre racconta, osserva con attenzione le sue montagne che ci circondano e che ogni giorno vede dalla finestra di casa e dalle strade di Mandello. Le stesse montagne che lo hanno visto crescere e per le quali nutre una passione incondizionata. La stessa passione che continua ancora oggi a spingerlo verso l’alto, anche solo per camminare, esplorare e continuare a sognare.



Aveva 13 anni quando con alcuni amici ha iniziato a scalare, le prime vie di quarto e quinto  grado furono utili per prendere dimestichezza, per giocare. Poi a 16 anni è arrivato il momento di percorrere le lunghe vie dalla Medale, la grande parete che sovrasta Lecco, ormai pronto ad affrontare difficoltà di sesto e settimo grado. Dopo la scuola dell’obbligo ha iniziato subito a lavorare, ma tutto il tempo libero era dedicato alla montagna e all’arrampicata. “Abitando in questo posto eravamo sempre in giro per i boschi e eravamo sempre allenati, per noi era naturale andare in montagna e con la Grignetta qua sopra casa, tutti i fine settimana salivamo ai Pian dei Resinelli, dormivamo in qualche baita, dove ci ospitavano. Si mangiava poco ma si era sempre in giro a scalare.” I suoi occhi sorridono mentre racconta e lo sguardo si abbassa a cercare quella striscia di case schiacciate tra la riva del lago e la montagna, da dove anche oggi siamo partiti. In quegli anni di formazione la figura di riferimento, per Benigno e i suoi amici, è la guida alpina Giuseppe Alippi, meglio conosciuto come  il Det. Con lui si lega in cordata e a 18 anni percorre le impegnative vie  del Sasso Cavallo e del Sasso Carbonari. In quei primi anni ’70 sulla difficile via Oppio faranno la prima ripetizione senza bivacco, per la prima volta una cordata riesce a venire a capo di quella linea strapiombante in giornata. “A 20 anni arrampicare era come una droga, non ci bastava mai. C’era anche il lavoro, era faticoso. Alla domenica sera tornavamo stanchi morti dopo un fine settimana passato in montagna, ma al lunedì mattina, mentre entravo in fabbrica, stavo già pensando a qualche progetto per il fine settimana successivo e i giorni volavano nell’attesa che arrivasse il venerdì sera.”


Riprendiamo il cammino e ben presto calchiamo la vetta dello Zucco Sileggio, davanti a noi la parete Ovest del Grignone si mostra in tutta la sua bellezza, alcune nebbie la velano per poi dissolversi. Grandi cornici di neve si protendono nel vuoto e incombono sui canaloni che la solcano, bordati da speroni calcarei. Sono ben sei le linee d’arrampicata che salgono la parete e due sono state salite per la prima volta da Benigno. Lui ce le indica e le descrive nel dettaglio, si ricorda esattamente tutto: date, orari, difficoltà, gli amici di cordata, è una fonte inesauribile di informazioni, dettagli e aneddoti. “Vedi? Questa, anche se la in fondo c’è il lago e la sua quota è modesta, per me è una grande montagna. D’inverno tutto si trasforma e diventa impegnativo, difficile, e se parti a piedi da casa nel pieno della notte, per poi trovarti in parete alle prime luci dell’alba, è come essere al Monte Bianco.” Lo ascolto e poi gli chiedo il perché di questo amore per l’inverno e le linee di ghiaccio e neve così effimere e mutevoli, itinerari che si devono curare, conoscere e salire al momento opportuno. “Quando ho iniziato a scalare non si faceva nulla in inverno. Ci si limitava ai canali della Grignetta, alla cresta Segantini e al canalone ovest sul Grignone. Però a me l’ambiente invernale piaceva tantissimo e ho subito capito che quello era il mio alpinismo, i luoghi dove vivere delle grandi avventure. Quindi ho iniziato ad esplorare e qui c’era tutto quello che cercavo e di cui avevo bisogno.
Benigno continua a raccontare della sua vita passata tra i canali, sulle rocce e sul ghiaccio della sua montagna, mentre lo ascolto mi perdo nel guardare la parete ovest che lentamente viene scolpita dai raggi del sole che, nel primo pomeriggio, iniziano a lambirne le costole rocciose e a disegnare con minuzia le cornici e le creste di neve. Il tempo scorre lento e al termine della giornata ci lasciamo con la promessa di rivederci al più presto, per andare a fare visita alla parete e salire insieme una delle sue linee, legati alla medesima corda.

GRIGNONE – PARETE OVEST


Ieri sera Benigno mi ha chiamato: “Domani sulla Ovest le condizioni saranno perfette! Lo zero termico si abbassa e questa notte gelerà tutto. Alle 4 ti aspetto al Cainallo, vedrai che prima di mezzogiorno saremo in vetta?” Rispondo senza esitare: “Ok! Ci sarò.” È ancora buio quando arrivo al luogo dell’appuntamento, Benigno è lì che mi aspetta, un vento freddo da nord strapazza le chiome spoglie dei faggi. Un saluto, due parole e siamo già in cammino verso la Bocchetta di Prada e il rifugio Bietti. Durante l’avvicinamento con il suo aiuto ripasso la storia della parete. Per ogni via, ogni luogo, ogni anfratto, dalla sua memoria scaturiscono mille ricordi, aneddoti, immagini e storie.
Il “Canalone Ovest” è la più evidente delle linee da salire in inverno, incide il centro della parete e punta dritto ai 2410 metri della cima della Grigna Settentrionale, anche conosciuta come Grignone. Fu percorso per la prima volta nel lontano 17 ottobre 1874, in discesa da Giovanni Gavazzi, Julien Grange e Primo Ballati
Nella parte di sinistra vi sono altre tre linee che sbucano sulla Cresta di Piancaformia. All’estrema sinistra troviamo Il “Canale della Fiamma” o “Couloir Festorazzi-Galperti”, aperto da Lorenzo Festorazzi e Francesco Galperti, nei òprimi anni duemila. Poi abbiamo l’evidente “Canalone di Sinistra”, un’altra grande classica da salire con piccozze e ramponi, di cui non si conoscono i primi salitori. Incastrato tra questo e il “Canalone Ovest”, troviamo il “Couloir Zucchi”, impegnativo itinerario, caratterizzato da una dura sezione su roccia, aperto nel 1959 da Corrado Zucchi e compagni. Nella porzione di destra della parete, dove predominano gli speroni e le barre rocciose, si sviluppano i due itinerari più impegnativi, entrambi aperti da Benigno nel dicembre del 2003. “Magic Line”, aperta con Massimo Poletti il 13 Dicembre e dedicata a Sergio Gianola, è ormai diventa una grande classica per chi ama le condizioni effimere della scalata su ghiaccio sottile. Ancora più a destra “La storia infinita” è stata aperta con Lorenzo Castelli e Andrea Fasoli il 17 e 18 Dicembre 2003. Questa linea, dedicata a Marco della Santa, per le precarie sezioni di misto e roccia da salire con piccozze e ramponi, è la più impegnativa e ha richiesto anche un bivacco in parete, per attendere che il rigelo notturno garantisse le migliori condizioni di sicurezza.



Mentre ascolto le infinite storie di Benigno, lo seguo per canali e pendii nevosi, la neve è portante e la progressione veloce e sicura. Senza rendermene conto saliamo il “Canalone di sinistra”. Immerso nell’ombra della fredda parete mi godo le chiacchiere e l’incredibile panorama che si apre sotto i nostri ramponi. Il lago è una presenza incredibile e il contrasto tra le vele che scivolano sui riverberi delle acque e noi che saliamo verso il cielo, scatena  emozioni difficili da raccontare. Benigno si ferma per un attimo al mio fianco, in punta di piccozze e ramponi mi osserva e sorridendo dice: “A fare queste cose torno bambino, perché mi diverto un sacco. Queste sono le cose che ho sempre sognato da quando ho iniziato a frequentare la montagna. È bellissimo!

Pubblicato su "OROBIE" - ottobre 2014   

domenica 19 ottobre 2014

#5 PARETI E RACCONTI - Le mani di Simone



QUALIDO - Simone Pedeferri racconta

Le mani di Simone si muovono nell’aria con decisione ed eleganza, gesti rapidi e precisi scanditi da pause e accelerazioni, si alternano in una danza sinuosa e imprevedibile. A volte sembra plasmino l’aria come fosse materia, altre volte che accarezzino una tela, oppure che stiano stendendo strati di colore. Le osservo, si fermano a mezz’aria, mentre le dita si muovono come stessero sfiorando la pietra, sino a quando, trovata la giusta posizione, si stringono attorno a piccoli appigli fatti di cielo e da cui iniziare la scalata. Lo sguardo, calamitato da queste mani, resta affascinato da quella esatta padronanza dello spazio che le circonda. Mi perdo a tal punto nell’ascoltare ciò che raccontano le sue mani, che a volte non seguo più la sua voce. “Scalata e arte sono due passioni totali, - afferma Simone - due mondi paralleli. Nell’arte il mio elemento ispirante è la natura, con i suoi paesaggi e lo spazio, elementi in cui mi immergo quando scalo sulle montagne di casa o nei luoghi selvaggi dell’Africa e del mondo. I colori che uso e che plasmo, arrivano proprio da qui, dalla natura che mi circondo e dalle esperienze che vivo. Le emozioni, le immagini e i momenti si stratificano, si accumulano, si coprono l’un l’altra. Quando lavoro le faccio emergere e con calma loro arrivano, si svelano. Ne ottengo fasce di emozioni che torno a sovrapporre e stratificare sulla tela. Dipingo con un segno scultoreo più che pittorico, un segno forte simile ai gesti della scalata, un segno materico come è materia la roccia su cui scalo. In parete, come in studio, la parte razionale e quella istintiva emergono e inizialmente si combattono, si studiano, si scrutano e infine si fondono sino ad entrare in armonia.” Le parole diventano quindi puro accompagnamento,  semplice punteggiatura del racconto fatto dalle sue mani, sempre pronte a narrare storie di amicizia, d’arrampicata e d’arte. Mani in grado di lasciare un segno sulla pietra e sulla tela, a sfidare il tempo.

Il cielo è terso e l’aria decisamente fredda. Oggi in Valle di Mello siamo soli, a sinistra le grandi placconate di granito paiono groppe di giganteschi animali che sonnecchiano e si crogiolano nel sole, mentre sulla destra è il regno dell’ombra che domina incontrastato e già le prime bave di ghiaccio ornano il bordo delle cascate. La, in fondo, i due mondi convergono nell’imponente Monte Disgrazia, vigile custode dell’intera Valle. “Vent’anni fa cercavamo un posto simile allo Yosemite e lo abbiamo trovato qua. –Simone si ferma sotto un grande faggio e parla tranquillo – Un posto dove alla sera si potesse stare attorno a un fuoco, bivaccare sotto i massi e partire la mattina con lo zaino in spalla per scalare tutto il giorno. All’inizio partivo da Cantù per venire qua, poi gli eventi della vita mi hanno trattenuto in questa valle. Qui ho conosciuto Monica, mia moglie, e ho invertito la rotta. Questo luogo e le sue pareti mi hanno fatto crescere e, ancora oggi, continuano a farmi crescere. L’apprendimento non finisce mai sia sui massi che sui montiri, sulle vie brevi ma soprattutto sulle big-wall, l’ambiente che amo di più

In alto, le montagne sono già spruzzate dalla prima neve. Riprendiamo il cammino immergendoci nei colori dell’autunno che ormai si stanno spegnendo. Ancora vivido è il giallo dei larici mentre le pennellate oro delle betulle, tra il verde compatto degli abeti, restituiscono brillanti raggi di sole. Oggi il Precipizio degli Asteroidi è la nostra pietra d’angolo, ai suoi piedi svoltiamo a sinistra, abbandonando la placida mulattiera di fondo valle per risalire l’antico sentiero dei Melat, che si inerpica in Val Qualido.

Saliamo zigzagando tra faggi dalle architetture uniche, le foglie crepitano sotto i piedi, ci fermiamo spesso per osservare, tra le chiome spoglie, la grande parete del Qualido che inizia a delinearsi nella sua imponenza. Ad ogni sosta il racconto di Simone, prende forma, cresce e si rinnova, le mani con movimenti ampi ed eleganti sostengono e amplificano la narrazione. A volte ci indica una linea sulla grande parete e frugando tra i ricordi ci regala frammenti della sua vita, fatta di emozioni e amicizie: “Ci sono legami che vanno oltre le difficoltà affrontate in parete e che si consolidano per sempre. Gli amici sono stati fondamentali nella mia vita, ogni salita è indissolubilmente legata al volto di un amico, in maniera profonda.”

Il bosco si fa sempre più rado e in quota cede spazio ai pascoli, la parete si mostra in tutta la sua bellezza.

Passiamo come di consueto all’Hotel Qualido, un meraviglioso posto da bivacco posto sotto un grande masso di granito, ricavato da un antico ricovero di pastori. Simone apre il cancelletto ed entra, mentre gli occhi si abituano alla penombra dice: “In venti anni ho passato i mesi in questo posto. A un buco del genere ci si affeziona per forza. Quando ho fatto Joy Division ho passato più di tre settimane qua. Era il mio campo base. Per la gran parte del tempo ci sono stato da solo, salivo e scendevo lungo le corde fisse per provare i tiri di corda, ero un bambino super selvaggio. Ogni tanto salivano gli amici a trovarmi e per salire in parete con me, a scalare.

Usciamo dall’Hotel e saliamo ai piedi della parete dove giochiamo scalando le prime lunghezze di alcune vie. Oggi l’obbiettivo non è quello di salire una linea su questa big-wall, oggi ciò che ci interessa è scalare tra le parole e fare emergere, come scultori, da questa stratificazione di emozioni e i ricordi, le forme dell’intimo legame che unisce Simone alla parete del Qualido. “Vivere il Qualido non è solo arrampicare sulla parete. Vivere il Qualido è stare in questo ambiente, accendere il fuoco la sera, mangiare, vedere l’alba, attaccare la parete, ridiscendere, cercare di fare le vie in arrampicata libera. -  e continua Simone -  per me è stato importante potere godere di questa parete in tutte le stagione per sentire dentro di me di avere vissuto un intero percorso con lei.” Si interrompe e sorride, poi lo sguardo si perde nuovamente su quell’impressionante architettura di granito:“Se torni per anni su una parete, alla fine ti accorgi che non devi dimostrare niente a nessuno. Dopo tutto un percorso vuoi solo vivere dei momenti piacevoli e quindi vai alla ricerca di quei momenti di quelle sensazioni. Le sfumature che cogli sono diverse anche se la parete è la stessa, perché nel profondo sei tu che sei cambiato.”

La giornata volge al termine e ci incamminiamo verso valle, la parete è ormai in ombra, Simone la guarda ancora per un ultima volta. Chissà a cosa pensa, chissà quanti altri ricordi tornano a galla ad ogni sguardo, chissà quanti nuovi progetti frullano in quella testa.



Simone artista, Simone alpinista



Al rientro ci fermiamo a San Martino di Valmasino e ci rifugiamo nell’ambiente caldo e accogliente del Bar Monica. Qui lavora e abita Simone con la moglie Monica. Dopo esserci scaldati ci invita a salire di sopra dove, nella mansarda, vi è una parte del suo atelier. Lui, diplomato all’accademia di Brera, in questo spazio lavora e crea. Ci parla delle opere alle pareti e poste in ogni dove, ci racconta la sua visione dell’arte e del intimo legame con la natura e la scalata. Prende dei giganteschi rotoli di carta e li distende sul pavimento, li guarda soddisfatto. Da una certa distanza risalta evidente la figura di un uomo, ma quando mi avvicino comprendo che quell’uomo non è altro che la geografia della Valmasino, compresa la Valle dei Bagni e la Val di Mello. Mi chino ancora di più e non finisco di sorprendermi nel cogliere i dettagli e di vedere disegnati uno ad uno i massi granitici che realmente si trovano nella valle, con le loro forme esatte e le linee tracciate sulle loro piccole pareti. “Questo è il disegno originale che ho fatto per l’ultimo MelloBlocco – dice soddisfatto Simone – la  manifestazione che organizziamo ormai da 10 anni e che porta nella valle migliaia di persone, un’esperienza unica nel suo genere.” Poi, mentre mi indica i dettagli del disegno, le sue parole diventano una musica di sottofondo e mi perdo nel guardare le mani di Simone che si muovono sul disegno come se stesse dipingendo, come se stesse arrampicando.



QUALIDO BIG WALL – La storia secondo Simone



In Qualido alcune vie si possono ripetere anche in giornata, ma le sue dimensioni, la difficoltà e la lunghezza di molti itinerari, che oscilla tra i 500 e 800 metri, ne fanno una big wall su cui è possibile e a volte indispensabile passare più giorni, scalando, vivendo e dormendo in parete.

I sassisti hanno aperto la strada e se “Via Paolo Fabbri 43” (1978) è stata la prima via della parete con “Il paradiso può attendere” (1982), salita in cinque giorni di scalata, Paolo Masa, Jacopo Merizzi e Antonio Boscacci hanno chiuso alla grande quel Nuovo Mattino di cui sono stati protagonisti in Valle di Mello, fatto di ricerca e avventura. Oggi la si ripete anche in libera ma “Il paradiso” resta una scalata assolutamente avventurosa e selvaggia dove ci si deve adattare alla parete, alle sue regole e non c’è nulla di preconfezionato.

Poi si deve segnare il passaggio della meteora Tarcisio Fazzini, un fuoriclasse indiscusso. Con “Pejonasa wall” e “La spada nella roccia” (1989), vie ancora oggi temute e di riferimento, ha spinto a fondo il piede sull’acceleratore delle difficoltà. Con Fazzini possiamo parlare di arrampicata moderna in cui viene introdotto l’uso sistematico dei friends e dove compaiono i primi spit, usati con parsimonia per proteggersi sulle placche.

Sempre nel 1989 inizia l’era di Paolo Vitali e Sonja Brambati, la loro prima via “Transqualidiana”, ancora oggi pochissimo ripetuta, è una pietra miliare, dove Paolo ha snobbato sistematicamente i sistemi di fessure e si è avventurato sulle placche aperte, usando pochi spit e spingendo l’arrampicata libera. Numerose sono le vie aperte dalla coppia, tutte caratterizzate da sezioni in placca raccordate da logiche linee di fessure. “Artemisia” (1991), ”Galactica”(1992) e “Melat” (1993) sono forse le più belle e sicuramente tra le più ripetute.

Sempre nel 1989 Gianni e Paolo Covelli, Silvio Fieschi e Fabio Spatola con la via “Mellodramma”, una grande linea in artificiale, danno un contributo alla storia alpinistica della parete. Altro momento significativo per la parete è quello legato alle vie aperte da Stefano Pizzagalli e Domenico Soldarini. Nel 1992 i due compiono un grande viaggio in perfetto stile big-wall, bivaccando in parete, e nasce così “Vertical Holidays”.

Poi c’è stato l’avvento dell’arrampicata libera con l’attività degli sloveni capitanati da Igor Koller e quindi di Simone. Si ripetono vecchie vie in artificiale cercando di salirle completamente in libera, si aprono nuove vie e si concatenano sezioni di vie differenti, sempre con l’ottica di salire in sola arrampicata libera. Gli sloveni iniziano nel 1995 con la prima libera de “Il paradiso” e nel 1996 aprono e liberano una breve via “Forse si, forse no” un piccolo cameo di sole tre lunghezze ma che, con il suo grado 8b, è la via più dura della parete. Nel 1999 Simone e Marco Vago si aggiudicano la prima libera de “La spada nella roccia” e sempre Simone, con Alberto Marazzi, salgono una bella e dura combinazione di 15 tiri che battezzano “Black snake”. Nel 2004 sempre Simone corona un sogno che insegue da tempo. La nuova linea è la combinazione di “Forse si, forse no” continuando sopra sino a raccordarsi ai tiri in artificiale di “Mellodramma” e finiere quindi su “Melat”. Dopo giorni e giorni passati in parete, a provare i singoli tiri, dopo 15 giorni di tentativi riesce a salire in tre giorni tutta la via completamente in libera. Nasce così “Joy Divisions” che, con i suoi 20 tiri e difficoltà sostenute sino al 8a, è la via di stampo moderno più dura di tutta la parete e probabilmente di tutta Europa e che ben figura anche a fianco delle vie moderne in libera di El Capitan, la mitica parete dello Yosemite in California.

Pubblicato su "OROBIE" - settembre 2014