SCRIVERE E' UN PIACERE – Un luogo che mi è caro
LA CUCINA D’INVERNO. Non vi voglio parlare della mia cucina
d’oggi dove, nelle sere d’inverno, il camino è acceso e dopocena ognuno si
trova il suo angolo per fare ciò che più gli piace. Scrivere, chiacchierare,
leggere o anche non fare nulla e trascorrere il tempo a sonnecchiare o ad
osservare il colore delle braci e il guizzare della fiamma.
Ho già detto troppo dell’oggi. “Un luogo che mi è caro” di cui
voglio scrivere se ne sta invece in un ieri remoto. E non è la nostalgia che mi
fa tornare a quello spazio, e nemmeno la malinconia che possono suscitare i
ricordi d’infanzia, ma ciò che mi spinge a scrivere di quel luogo è la ferma
consapevolezza che in quel minuscolo locale mi sono formato, sono cresciuto e
sono arrivato ad essere l’uomo di oggi, vivendo nel flusso di un continuo
presente.
Ho chiacchierato già troppo, ora veniamo al dunque.
D’inverno l’unico ambiente riscaldato della casa era la
cucina, uno stanza lunga e stretta affacciata sul portico, a memoria direi tre
metri per cinque, ma ai miei occhi da bimbo era immenso. Lì la mamma lavorava
alla macchina da cucire, lì mia sorella ed io facevamo i compiti e giocavamo, lì
si cucinava, si mangiava, si scaldava l’acqua per lavarsi, si asciugavano i
panni e molto altro ancora. La stufa, ovvero la cucina economica, se ne stava
quasi in fondo sul lato destro, attorno a lei ruotava la vita della famiglia
intera. A noi piccoli spettava l’incombenza di andare a prendere la legna e
tenerla carica.
Quindi, riepilogando. Si entrava dalla porta a vetri, unica
fonte di luce dello spazio, e sulla destra appoggiata al muro c’era la sua
tagliacuce su cui la mamma era costantemente al lavoro. Sulle piastrelle, davanti
a lei, con una ventosa era appeso un piccolo specchio, di quelli col bordino di
plastica colorata acquistato al mercato del venerdì. Lo specchio serviva alla
mamma per potere controllare, con un semplice sguardo, tutto lo spazio e tenere
d’occhio che cosa combinassimo, senza dovere sospendere il lavoro. Poi c’era il
tavolo di formica gialla appoggiato al muro, per la cena lo spostavamo verso il
centro, anche le sedie erano di formica gialla. Verso il fondo si trovava la
stufa sempre accesa. La “scolderena” era sempre piena d’acqua calda e il tubo
smaltato di bianco saliva diritto verso il soffitto, per poi fare una curva a
gomito e attraversare una parte della cucina, sino ad entrare nel muro dove
c’era la canna fumaria. Nel tratto verticale del tubo ci stava un marchingegno,
una specie di corona, che permetteva di bloccare delle stecche di ferro in
orizzontale, a formare una raggiera su cui stendere i panni da fare asciugare. Nell’angolo
ci stava una specie di cassettone per la legna. Sulla piccola parete opposta
all’ingresso c’era una finestrella, coperta da una tenda pesante, forava un
muro di oltre un metro di spessore e si collegava alla cantina. Era posta in
alto e non era accessibile a noi bambini, forse ricordo male ma lì in una “moscarola”
si teneva il cibo che doveva stare al fresco. Sul lato sinistro, dal fondo
verso l’ingresso, nell’ordine c’erano il lavandino e il fornello, con sopra lo
scolapiatti e due armadietti smaltati di bianco, poi il frigorifero e infine la
porta per andare in sala: il regno del gelo. In sala c’erano i mobili belli,
con il divano e la TV, in sala ci si stava d’estate e, per quanto mi ricordo,
solo nei giorni di festa. Da qualche parte, non rammento più dove con esattezza
c’era un piccolo cesto rettangolare, fatto con striscioline intrecciate di
plastica bianca e verde, con quattro gambette bianche e il suo bel coperchio,
anch’esso colorato, in cui c’erano tutti i nostri giochi. La vita era in
cucina. Per andare nelle camere e in bagno si usciva nel portico e si saliva la
scala esterna, la zona notte era al piano di sopra e non era riscaldata.
La cucina d’inverno era bellissima, lì c’era tutto quello che
io bambino potevo desiderare. Tornavo da scuola e mi aspettava la mamma con le
patatine fritte. Poi c’erano le maglie di tutte le squadre di calcio, mucchi e
mucchi, sulle sedie e sul tavolo, a cui tagliare i “codini”, ma questa è
un’altra storia. Quindi c’erano tante pezze e panni colorati e rocchetti di
filo di tutte le misure e colori con cui giocare. E poi la legna con cui
costruire città intere e piste infinite per le biglie e le macchinine. Quando
rientravamo dai giochi in cortile, che non conoscevano soste ne con il gelo ne
con la neve, con i piedi gelidi e fradici e le mani rosse e con i geloni, ci si
spogliava e, aperto lo sportello del forno della stufa, ci si scaldava i piedi
appoggiandoli al suo imbocco. Dei compiti non ricordo quasi nulla però dell’Atlante
De Agostini mi ricordo benissimo e ancora oggi ho l’esatta memoria dei viaggi
che mi inventavo sopra gli oceani e tra i continenti, alla scoperta del mondo. Giungeva
quindi l’ora della “Tv dei Ragazzi” e spuntava per incanto la televisione, ma
di questa magia forse ne scriverò un’altra volta. Poi arrivava un momento anzi “il
momento” in cui la mamma diceva “Bambini! È ora!” e noi sapevamo esattamente
cosa voleva dire. Lei continuava a lavorare e noi iniziavamo a sistemare. Io mi
ricordo che sistemavo benissimo, sistemavo tutto ed ero bravissimo, forse mia
mamma potrebbe ridire qualcosa e mia sorella, se interpellata nel merito,
avrebbe sicuramente ricordi ben diversi. Poi, sempre sotto quel suo sguardo
riflesso nel piccolo specchio appeso al muro, seguivamo le sue indicazioni per
preparare la cena. Infine si alzava e, dopo avere impacchettato in bell’ordine
le maglie dei calciatori, cucinava sulla stufa e sui fornelli mentre ci aiutava
ad apparecchiare la tavola. D’inverno papà tornava dal lavoro quando era già
buio, dopo un lungo viaggio in corriera, entrava in casa e ci si sedeva a
tavola per la cena. Non ricordo di cosa si parlasse ma ricordo che guardavamo
Il Bernacca, Il Telegiornale e Il Carosello, per poi prenderci, dal forno della
stufa, il nostro mattone bello caldo ed avvolto in un panno, coprirci bene,
uscire e salire al piano di sopra, per tuffarci, in compagnia del nostro
mattone, tra le lenzuola di flanella, sotto una trapunta che pesava una cifra
ma che tratteneva bene il caldo, come un igloo al polo nord.
E così è stato sino a quando iniziò il cantiere in cui
lavorammo tutti in famiglia Rubammo un
piccolo spazio alla cantina e fu realizzata una scala interna e infine tutti
gli spazi della casa vennero dotati di un impianto di riscaldamento. Lavorammo
tutta estate e i primi mesi della scuola. Iniziai così la quarta elementare.
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