mercoledì 26 ottobre 2016

14 #PICCOLE STORIE

SCRIVERE E' UN PIACERE – Un luogo che mi è caro

LA CUCINA D’INVERNO. Non vi voglio parlare della mia cucina d’oggi dove, nelle sere d’inverno, il camino è acceso e dopocena ognuno si trova il suo angolo per fare ciò che più gli piace. Scrivere, chiacchierare, leggere o anche non fare nulla e trascorrere il tempo a sonnecchiare o ad osservare il colore delle braci e il guizzare della fiamma.
Ho già detto troppo dell’oggi. “Un luogo che mi è caro” di cui voglio scrivere se ne sta invece in un ieri remoto. E non è la nostalgia che mi fa tornare a quello spazio, e nemmeno la malinconia che possono suscitare i ricordi d’infanzia, ma ciò che mi spinge a scrivere di quel luogo è la ferma consapevolezza che in quel minuscolo locale mi sono formato, sono cresciuto e sono arrivato ad essere l’uomo di oggi, vivendo nel flusso di un continuo presente.
Ho chiacchierato già troppo, ora veniamo al dunque.
D’inverno l’unico ambiente riscaldato della casa era la cucina, uno stanza lunga e stretta affacciata sul portico, a memoria direi tre metri per cinque, ma ai miei occhi da bimbo era immenso. Lì la mamma lavorava alla macchina da cucire, lì mia sorella ed io facevamo i compiti e giocavamo, lì si cucinava, si mangiava, si scaldava l’acqua per lavarsi, si asciugavano i panni e molto altro ancora. La stufa, ovvero la cucina economica, se ne stava quasi in fondo sul lato destro, attorno a lei ruotava la vita della famiglia intera. A noi piccoli spettava l’incombenza di andare a prendere la legna e tenerla carica.
Quindi, riepilogando. Si entrava dalla porta a vetri, unica fonte di luce dello spazio, e sulla destra appoggiata al muro c’era la sua tagliacuce su cui la mamma era costantemente al lavoro. Sulle piastrelle, davanti a lei, con una ventosa era appeso un piccolo specchio, di quelli col bordino di plastica colorata acquistato al mercato del venerdì. Lo specchio serviva alla mamma per potere controllare, con un semplice sguardo, tutto lo spazio e tenere d’occhio che cosa combinassimo, senza dovere sospendere il lavoro. Poi c’era il tavolo di formica gialla appoggiato al muro, per la cena lo spostavamo verso il centro, anche le sedie erano di formica gialla. Verso il fondo si trovava la stufa sempre accesa. La “scolderena” era sempre piena d’acqua calda e il tubo smaltato di bianco saliva diritto verso il soffitto, per poi fare una curva a gomito e attraversare una parte della cucina, sino ad entrare nel muro dove c’era la canna fumaria. Nel tratto verticale del tubo ci stava un marchingegno, una specie di corona, che permetteva di bloccare delle stecche di ferro in orizzontale, a formare una raggiera su cui stendere i panni da fare asciugare. Nell’angolo ci stava una specie di cassettone per la legna. Sulla piccola parete opposta all’ingresso c’era una finestrella, coperta da una tenda pesante, forava un muro di oltre un metro di spessore e si collegava alla cantina. Era posta in alto e non era accessibile a noi bambini, forse ricordo male ma lì in una “moscarola” si teneva il cibo che doveva stare al fresco. Sul lato sinistro, dal fondo verso l’ingresso, nell’ordine c’erano il lavandino e il fornello, con sopra lo scolapiatti e due armadietti smaltati di bianco, poi il frigorifero e infine la porta per andare in sala: il regno del gelo. In sala c’erano i mobili belli, con il divano e la TV, in sala ci si stava d’estate e, per quanto mi ricordo, solo nei giorni di festa. Da qualche parte, non rammento più dove con esattezza c’era un piccolo cesto rettangolare, fatto con striscioline intrecciate di plastica bianca e verde, con quattro gambette bianche e il suo bel coperchio, anch’esso colorato, in cui c’erano tutti i nostri giochi. La vita era in cucina. Per andare nelle camere e in bagno si usciva nel portico e si saliva la scala esterna, la zona notte era al piano di sopra e non era riscaldata.
La cucina d’inverno era bellissima, lì c’era tutto quello che io bambino potevo desiderare. Tornavo da scuola e mi aspettava la mamma con le patatine fritte. Poi c’erano le maglie di tutte le squadre di calcio, mucchi e mucchi, sulle sedie e sul tavolo, a cui tagliare i “codini”, ma questa è un’altra storia. Quindi c’erano tante pezze e panni colorati e rocchetti di filo di tutte le misure e colori con cui giocare. E poi la legna con cui costruire città intere e piste infinite per le biglie e le macchinine. Quando rientravamo dai giochi in cortile, che non conoscevano soste ne con il gelo ne con la neve, con i piedi gelidi e fradici e le mani rosse e con i geloni, ci si spogliava e, aperto lo sportello del forno della stufa, ci si scaldava i piedi appoggiandoli al suo imbocco. Dei compiti non ricordo quasi nulla però dell’Atlante De Agostini mi ricordo benissimo e ancora oggi ho l’esatta memoria dei viaggi che mi inventavo sopra gli oceani e tra i continenti, alla scoperta del mondo. Giungeva quindi l’ora della “Tv dei Ragazzi” e spuntava per incanto la televisione, ma di questa magia forse ne scriverò un’altra volta. Poi arrivava un momento anzi “il momento” in cui la mamma diceva “Bambini! È ora!” e noi sapevamo esattamente cosa voleva dire. Lei continuava a lavorare e noi iniziavamo a sistemare. Io mi ricordo che sistemavo benissimo, sistemavo tutto ed ero bravissimo, forse mia mamma potrebbe ridire qualcosa e mia sorella, se interpellata nel merito, avrebbe sicuramente ricordi ben diversi. Poi, sempre sotto quel suo sguardo riflesso nel piccolo specchio appeso al muro, seguivamo le sue indicazioni per preparare la cena. Infine si alzava e, dopo avere impacchettato in bell’ordine le maglie dei calciatori, cucinava sulla stufa e sui fornelli mentre ci aiutava ad apparecchiare la tavola. D’inverno papà tornava dal lavoro quando era già buio, dopo un lungo viaggio in corriera, entrava in casa e ci si sedeva a tavola per la cena. Non ricordo di cosa si parlasse ma ricordo che guardavamo Il Bernacca, Il Telegiornale e Il Carosello, per poi prenderci, dal forno della stufa, il nostro mattone bello caldo ed avvolto in un panno, coprirci bene, uscire e salire al piano di sopra, per tuffarci, in compagnia del nostro mattone, tra le lenzuola di flanella, sotto una trapunta che pesava una cifra ma che tratteneva bene il caldo, come un igloo al polo nord.

E così è stato sino a quando iniziò il cantiere in cui lavorammo tutti in famiglia  Rubammo un piccolo spazio alla cantina e fu realizzata una scala interna e infine tutti gli spazi della casa vennero dotati di un impianto di riscaldamento. Lavorammo tutta estate e i primi mesi della scuola. Iniziai così la quarta elementare.

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