Anche quest’anno, come di consueto, si rinnova il rito tanto
atteso da tutti gli amanti delle due ruote. Un rito collettivo che avrà inizio
l’11 maggio e, al ritmo dei pedali, percorrerà tutta l’Italia lungo le strade e
attraverso gli infiniti paesaggi del nostro paese. Dalle pianure ai monti,
dalle città ai borghi più sperduti, lungo le vallate ed i fiumi, come fosse una
grande festa in cui i protagonisti non sono solo gli atleti ma soprattutto il
variopinto pubblico che li accoglierà ovunque. Appassionati o semplici curiosi
che si assieperanno e attenderanno a bordo strada, per applaudire, per
incitare, per vedere i propri beniamini o anche solo per respirare quest’aria
di festa che solo il Giro d’Italia sa regalare.
Nell’edizione 2019 non mancheranno le tappe lombarde. La
sedicesima tappa si concluderà a Como dopo che i ciclisti avranno affrontato
due salite mitiche: il Ghisallo e la Colma di Sormano. Luoghi storici, dove
attendere e vedere passare il serpentone colorato del Giro è già una festa. A
seguire, la diciassettesima tappa avrà inizio a Lovere e, dopo 226 chilometri e
5700 metri di dislivello, terminerà a Ponte di Legno. Sarà un vero e proprio tappone
alpino, sulle cui salite si è costruita l’epica di questo sport. Nell’ordine si
scalerano il Passo della Presolana, giusto per scaldare la gamba, per poi
rilassarsi con la Croce di Salven, qui si affronterà il primo piatto forte
della giornata con la salita al passo Gavia ed infine i ciclisti dovranno
vedersela con la portata più sostanziosa, affrontando il Passo del Mortirolo da
Mazzo di Valtellina, salita per cui scomodare la parola "mitica" non
è un’esagerazione. Insomma sarà una tappa durissima, dove tutto potrà accadere
e la fatica accumulata, salita dopo salita, inciderà non solo sui risultati di
tappa ma anche su quelli della classifica generale. Quattro salite e quattro
passi dove il pubblico potrà gustarsi un grande spettacolo e tra quel pubblico
magari ci saremo anche noi, con la nostra bicicletta appoggiata a bordo strada
o semplicemente presenti per immergerci nel rito che anno dopo anno ci
ripropone il Giro d’Italia. E proprio lì, dal bordo di una strada, è nata la
mia passione per questo sport e soprattutto l’ammirazione per un grande
campione del ciclismo, Gianbattista Baronchelli.

Lunedì 3 giugno 1974.
La cronaca. Quel giorno, la tappa lombarda del Giro d’Italia
parte da Como e termina ad Iseo, dopo avere scalato due Gran Premi della
Montagna, al Colle Gallo e ai Colli di San Fermo. Eddy Merckx, Felice Gimondi e
Gianbattista Baronchelli sono in testa alla classifica.
In quegli anni, per me, il mondo del ciclismo e del Giro
d’Italia era rappresentato esclusivamente dalle palline di plastica, metà
colorate e metà trasparenti, che contenevano l’immagine del volto di un
ciclista con il suo nome stampato sul bordo. Sapevo solo che Gimondi e Merckx
erano i più forti al mondo e vincevano tutto ed in spiaggia, dopo avere
preparato una bella pista nella sabbia, avrei conteso aspramente con gli amici le
palline con le loro facce e i loro nomi.
Io, quel lunedì di giugno, me ne stavo seduto al mio banco
di scuola. Avevo 10 anni e una maestra giovane che adoravo. Lei, ogni
settimana, ci raccontava delle sue avventure in montagna e, regolarmente, ci faceva
lezione camminando tra i campi ed i boschi del paese. Probabilmente, in quel
giorno d’inizio estate, stavo solo pensando che la scuola sarebbe finita ben
presto. Ma quella mattina lei, la maestra, ci fece l’ennesima sorpresa “Bambini
oggi, proprio fuori dalla scuola, passa il Giro d’Italia. Se state buoni
usciamo prima che suoni la campanella e andiamo a vedere i ciclisti”. Poi ci
raccontò che Eddy Mercks era primo in classifica ma due bergamaschi erano al secondo
e al terzo posto, e lo stavano mettendo in difficoltà. Aggiunse che Felice
Gimondi era l’eterno rivale di Merckx, ed erano due grandi campioni ma a lei
piaceva molto di più Gibì Baronchelli, un giovane di soli vent’anni che abitava
nel paese vicino al suo. Se questo Gibì piaceva alla mia maestra non poteva che
piacere anche a me. Infine uscimmo in ordine dalla scuola, in fila per due,
mano nella mano, le bambine davanti e noi maschietti a seguire. La maestra ci
accompagnò lungo il marciapiede sino sulla via dove sarebbe passato il Giro. C’era
tanta gente lungo la strada, c’era aria di festa e profumo di vacanze, faceva
caldo. Ad un tratto l’attenzione di tutti fu calamitata dall’arrivo delle
vetture che aprivano la corsa, il nostro sguardo incuriosito si volse in fondo
alla via e ben presto un gruppo compatto di ciclisti comparve da dietro la
curva e sfrecciò velocissimo davanti a noi. C’era chi applaudiva, chi incitava,
chi urlava il nome del proprio beniamino. Io me ne restai un poco frastornato,avevo
visto quella massa indistinta, senza riconoscere Mercks, Gimondi e Baronchelli,
insomma non mi sembrò un grande spettacolo. Poi, nei giorni successivi, inizia
a seguire sui giornali e alla TV, non tanto il Giro d’Italia, ma cosa combinava
Baronchelli, perché se piaceva tanto alla mia maestra voleva dire che era una
persona importante. Finì la scuola e finì anche il Giro. Gibì, così l’aveva
chiamato la mia maestra, fece una cosa incredibile, non solo aveva preceduto
Gimondi ma, per dodici secondi, era arrivato secondo dietro a Merckx, che per
definizione era imbattibile. Quindi, per me, Gibì Baronchelli aveva vinto quel
giro d’Italia. Nella mente di un bambino di 10 anni, anche se arrivi secondo
dietro a quel campione, che i giornalisti chiamavano “Il Cannibale” e che aveva
già vinto per ben due volte sia il Giro d’Italia che il Tour de France, quei
dodici secondi di distacco non sono nulla, tu hai vinto ugualmente, sei il
numero uno. Perchè hai dimostrato ai più forti, ai più grandi, che li puoi
battere. Quell’estate e tutte le estati successive, sulla spiaggia, la mia
pallina preferita fu sempre quella con la scritta Baronchelli e l’immagine di
lui piegato sul manubrio, con la divisa bianca e nera della Scic e il
cappellino con la visiera girata all’indietro.
Passano gli anni e di quella passione per il ciclismo e per la
figura mitica, che per me è stato Gianbattista Baronchelli, mi restano non
tanto i ricordi delle sue vittorie ma quelli delle sue vicende sportive ed umane.
E se penso a Gibì mi viene da dire che nulla è impossibile, se si cade ci si
può sempre rialzare e ripartire con più determinazione e se davanti alla tua
ruota c’è un campione, che tutti dicono imbattibile, tu puoi dargli filo da
torcere sino all’ultimo chilometro. Dopo quei dodici secondi di distacco da
Mercks, che non sono nulla rispetto alle 113 ore che ci sono volute per
percorrere i 4001 chilometri, di quel Giro d’Italia del 1974, porto con me un
altro ricordo e, ancora una volta, non è quello di una vittoria, ma di un
secondo posto che vale più di una vittoria. Era il 1980, ai Campionati del
Mondo partono in 107, il circuito è durissimo, il freddo e la pioggia
massacrano i partecipanti che si ritirano uno ad uno, solo in 15 taglieranno il
traguardo, Bernard Hinault è il favorito ma Baronchelli gli tiene testa sino
all’ultimo giro e gli salta pure la catena, Hinault infine riesce a staccarlo e
tagliare il traguardo con un vantaggio di 1’01”.

Lo scorso anno la figura di Baronchelli rientra nella mia
vita quando Luca mi regala un libro curato da Gian-Carlo Iannella “Gibì
Baronchelli, 12 secondi”, mi racconta come è nato quel libro, di cui è
l’editore, e mi dice che è molto amico del Tista, così lui chiama Baronchelli. Torno
a casa e inizio a sfogliare le pagine del libro che mi trascinano in un bel
racconto in cui documenti e testimonianze, si intrecciano ad interviste, ricostruendo
così in modo originale la storia di Baronchelli atleta e uomo. Mentre leggo riemergono
così i miei ricordi: quel lontano 1974, la mia maestra, le palline di plastica
con i volti dei ciclisti. La lettura mi fa apprezzare ancora di più questo
personaggio che durante la mia infanzia è stato un vero e proprio mito e come
tale ritenevo fosse lontano ed intoccabile.
Lo scorso autunno sempre Luca, amico e fotografo, a cui
avevo poi raccontato di questi ricordi, mi telefona e mi chiede se nel
pomeriggio del giorno dopo fossi stato disponibile per una pedalata ed un
servizio fotografico lungo l’Adda. Nicchio un poco, non ne ho tanta voglia, ed
è allora che lui sfodera l’asso dalla manica “Dai che andiamo a fare una
pedalata con il Tista”. I dubbi svaniscono in un secondo e la risposta è
immediata ed affermativa. Non ci posso credere, sono passati quarantacinque
anni, ed ho l’opportunità di conoscere e pedalare con quel “ragazzo di
vent’anni” che per me è sempre stato un mito.
Il giorno dopo ci presentiamo ad Arzago, fuori dal negozio “Baronchelli
Sport”. Sono le dodici e mezza lui è già pronto, vestito di tutto punto e con
la sua mountain-bike. Alle 15,30 deve riaprire il negozio e vorrebbe tornare
per tempo, anche per farsi una doccia e mangiare qualcosa. Ci presentiamo e
saliamo in sella. Ha una bella stretta di mano, il suo sguardo è mobile e
brillante, direi curioso. Mentre ci guida attraverso le stradine di campagna, in
direzione di Rivolta d’Adda, iniziamo a chiacchierare e un poco per volta gli
racconto di me bambino e di come lui fosse diventato il mito della mia
infanzia. Io, un poco mi emoziono. Sorride e continua a pedalare. Non parliamo
per nulla della sua carriera, di tecnica, tempi e biciclette. Parliamo di
passione, quella passione che ancora oggi tre volte alla settimana, in pausa
pranzo, lo spinge a prendere la bicicletta e percorrere le alzaie dell’Adda
sino a Lodi e ritorno. Quella passione che lo ha portato alla mountain-bike, la
stessa che gli fa continuare a seguire con dedizione il suo negozio. Mentre
pedaliamo lungo l’argine e le golene dell’Adda, mi racconta che ci sono alcuni
luoghi del fiume che continuano ad affascinarlo, anche se li ha visti centinaia
di volte, stagione dopo stagione, anno dopo anno. Ad un certo punto si ferma,
proprio dove il fiume, oltre la golena, si fa ampio e la luce si scompone in
liquidi riflessi d’argento. Si volta e mi dice “Mi piace questo posto”. Poche
parole, asciutte ed essenziali, che mi trasmettono la sensazione di un uomo
profondamente legato alla sua terra, a questo angolo di pianura e al fiume.
Riparte lungo la sterrata. Io e Luca lo seguiamo a ruota. Imbocca alcuni
sentierini che salgono e scendono tra i pioppi e i salici della golena.
Accelera in maniera leggera e costante. Con regolarità si volta leggermente con
il capo per controllare se siamo in scia. Continua ad accelerare. Luca non
molla la sua ruota. Non ci posso credere: è partita la sfida. Io fatico a tenere
la ruota di questi due demoni e, piano piano, mi staccano. Mi diverto nell’inseguirli
e guardarli sfrecciare davanti a me sul limitare tra i campi e il fiume. Meno
male che, di tanto in tanto, Luca ci richiama all’ordine e quando intuisce che
la luce e è perfetta e l’inquadratura è
buona, non esita a rallentare e fermarsi e noi con lui. Posso quindi riprendere
fiato e mentre Luca scatta io e Gibì pedaliamo tranquilli e ci scambiamo qualche
battuta. Siamo ormai giunti nei pressi di Lodi, è ora di rientrare. Chiedo a
Gibì se usa ancora la bici da strada, lui mi dice che la usa una volta la
settimana, durante il weekend, però c’è un problema. Lo guardo un poco stupito
e con sguardo interrogativo attendo che lui continui. “Mi piace ancora andare
su strada e in salita ma quando vedo uno davanti non resisto, devo andarlo a
prendere. È una costa istintiva, non riesco a trattenermi, è più forte di me.
Il problema è che non ho più vent’anni” Mi guarda, si mette a ridere e aumenta
il ritmo, mi stacca leggermente, Luca si mette nuovamente a ruota, io me ne
resto in coda. È partito lo sprint finale, tra pochi chilometri saremo nuovamente
ad Arzago. Cerco di tenere la loro ruota, non devo perderla, ma inesorabilmente
mi staccano. E penso a Gibì ventenne, a quel Giro d’Italia del 1974 e al suo
innato istinto di andare a prendere la ruota di quello che gli stava davanti,
con generosità, semplicità e determinazione.
Eccoci giunti alla fine del nostro giro. Ci salutiamo e gli
prometto che tornerò a trovarlo nel suo negozio. Solo mentre sono in viaggio
per tornare a casa realizzo che ho veramente pedalato con quello che è stato il
mio mito, con il Gibì per cui tifavo ad ogni tappa del Giro e che mi osservava
da dentro una pallina di plastica ogni volta che era il mio turno di tirare.
E chissà se quest’anno una nuova e giovane promessa saprà
farci sognare, scalando con determinazione e generosità la Presolana, il Gavia
e il Mortirolo per poi piombare sul traguardo di Ponte di Legno con 12 secondi di
vantaggio su un più affermato campione.
Articolo pubblicato sulla rivista OROBIE - Maggio 2019