Stiamo scendendo, Mario è
qualche passo avanti a noi, assorto nei suoi pensieri.
– Chissà a cosa pensa? – mi
chiedo. - Cosa avrà portato a galla questa giornata trascorsa in questi luoghi?
Quali ricordi e quali immagini saranno riemersi dalle quinte della memoria? –
La scorsa estate, in una
giornata perfetta, Matteo ed io accompagniamo Mario Curnis ai piedi del
grandioso versante nord dell’Adamello. Con calma risaliamo tutta la Val d’Avio
sino al Rifugio Garibaldi. Matteo scatta, scatta e scatta, con le sue
fotocamere cattura attimi che raccontano persone, paesaggi, atmosfere. Io sono
tra loro, chiacchiero e mi appunto ogni emozione, ci provo. È l’occasione di ascoltare le mille
storie che Mario ha da raccontare e raccoglierle proprio lì, tra i monti dove
tutto è accaduto, dove le sue parole risuonano con una vibrazione differente,
forse più profonda.
Lo osservo, mentre rientriamo
in silenzio. Sulle ampie piode di pietra che lastricano il sentiero Il suo passo
è sicuro. A ogni tornante cerco di catturare la luce dei suoi occhi. A volte lo
sguardo di Mario resta fisso a terra per cercare il giusto appoggio, oppure
vaga sulla valle e sale lungo le pendici sino alle grandi pareti che ci
circondano. Altre volte gira il capo e ci guarda per un istante, come d’istinto
fanno tutti i capibranco, forse per assicurarsi che noi ci siamo e non ci siamo
attardati. Sicuramente sarà stato così anche cinquant’anni fa mentre, sprofondando
nella neve e avvolto dal gelo dell’inverno, guidava il rientro a valle tenendo
d’occhio i suoi amici, compagni d’avventura con cui aveva appena scalato lo
spigolo Nord dell’Adamello.
Le storie che mi ha
raccontato questa mattina, mentre salivamo con tutta calma al cospetto della grande
parete nord, sono stati doni preziosi. Ma
quanti altri ricordi, trascinati dalle parole, saranno riemersi senza essere
narrati, quante emozioni e immagine vorticheranno ora nella testa di Mario.
Taccio e continuo a osservarlo mentre provo a immaginarlo venticinquenne, in
quel freddo inverno del 1963, quando, dopo avere deciso di salire in prima
invernale lo spigolo nord dell’Adamello, si ritrova con gli amici Damiano
Petenzi e Piero Bergamelli, detto “Stremasì”, al Bar Alpino di Nembro. Quello
era il quartiere generale dell’alpinismo nembrese, sopra il bar c’era la casa
di Leone Pelliccioli, figura di assoluto riferimento. Con i tre alinisti si
trovano anche Franco Maestrini e un altro amico. Ognuno mette il suo materiale
e lo zaino sull’auto e quindi partono. Non essendoci spazio per tutti Maestrini
e l’amico, che avrebbero aiutato a portare il materiale alla base della parete
e, salendo dalla via normale, li avrebbero attesi in vetta, li seguono con la
motocicletta. Giunti a Vezza d’Oglio, dove parte il sentiero per il rifugio Garibaldi,
i conti non tornano: manca uno zaino. Piero ha dimenticato il suo al bar
Alpino. Mario ride ancora oggi mentre racconta questa storia: “Piero è un mio grande amico, ancora oggi.
Lui è fatto così, un Gianburrasca. Ne ha combinate tante altre come questa, ma
non puoi volere male ad una persona come Piero. Non puoi nemmeno arrabbiarti,
perché lo fa con innocenza.” Mentre racconta di questa avventura Mario
continua: “Che freddo! Faceva un freddo!
Allora telefoniamo al bar Alpino e ci dicono che lo zaino era ancora lì. Un
amico lo prende e con la moto parte per la Val Camonica. Intanto il Maestrini,
risale in moto e gli va incontro. Non c’erano i cellulari in quegli anni e
pensa, che fortuna! Faceva così freddo che per scaldarsi il Maestrini, giunto a
Lovere, si ferma e entra in un bar. Sai chi ci trova? L’amico di Nembro, che si
era fermato pure lui per il freddo.”
Mario questa mattina mi ha
raccontato divertito questa e mille altre storie. Abbiamo parlato per tutto il
tragitto, camminando senza fretta e facendo qualche pausa. Ora durante la
discesa lo vedo assorto, pensoso, come rapito dai ricordi che quei luoghi hanno
risvegliato. Della salita, in termini alpinistici, ne parla gran poco. In due
giorni il 9 e 10 febbraio i tre percorrono la via, il suo unico commento: “Il primo giorno abbiamo bivaccato a duecento
metri dalla cima, siamo saliti bene. Poi siamo andati in vetta e a scendere è
stata un po’ lunga.” Eppure quella prima salita invernale non sarà stata
una passeggiata e con i materiali e il vestiario di allora l’impegno sarà stato
decisamente elevato. Ma Mario non indugia su questo, quello su cui più volte si
sofferma sono dettagli e frammenti legati al rapporto con i compagni di
cordata. Mentre li racconta c’è una freschezza e un’energia nella sua voce che
pare stia parlando di cose successe la scorsa settimana e ride mentre narra
un’altra cosa che ha combinato Piero. Non fatico a immaginare i tre alpinisti
impegnati lungo quello sperone di granito incrostato di ghiaccio e neve, con
gli abiti di lana, le giacche di nylon, gli zaini pesanti e quel freddo intenso
che ti entra nelle ossa. Durante una sosta Mario chiede a Piero di scaldare un
poco di acqua, sul “fornellino a meta”, e preparare un te caldo, giusto per
scaldarsi un poco e combattere il gelo. Mi immagino il pentolino fumante che
passa di mano in mano e sento addirittura sulle mie mani il piacere che può
avere dato quel contatto. Vedo perfettamente il gesto di portarsi la bevanda
alla bocca, quasi a sentire sul volto il vapore caldo del the. “Ci siamo passati il pentolino. – dice
Mario – Sai com’è, un freddo cane. Lo
provo e dico: Ma Piero! Cosa hai messo in questo thè? Non hai messo lo
zucchero? In poche parole invece che mettere le zollette di zucchero, aveva
messo tre dadi del brodo. Erano le sue specialità quelle. Abbiamo riso un bel
po’ e ci siamo bevuti il cocktail.”
Quella fu, nel massiccio
dell’Adamello, la prima salita invernale su una grande via.
Mentre cammino
e ripenso alla giornata trascorsa, mi convinco sempre di più che parlare con
lui lì, dove tutto è accaduto, ha un sapore differente. Fissare gli occhi di
Mario che brillano, mentre racconta e cammina, mentre racconta ed osserva la
parete, è un privilegio. Così scopro del suo rapporto particolare con la
scrittura e dei suoi diari gelosamente custoditi, di questa abitudine ereditata
dal padre. Ci confrontiamo sul perché scrivere di sé e sul potere della parola
scritta. Si ferma, mi guarda e dice: “Quando
scrivo dico cose che, quando parlo, non vogliono uscire. Quando hai scritto una
cosa di te, quella è ormai uscita da te ed è lì sulla carta. Buttare fuori le
cose, soprattutto quelle brutte, ti aiuta a capirle, a superarle, a guardarti
avanti e a vivere.”
Adamello parete Nord
Pillole di storia
Sino agli anni “60 due erano
le vie che percorrevano il versante nord dell’Adamello. Lo spigolo nord-ovest
aperto nel 1904 da Alessandro Gnecchi e Giovanni Cresseri, con difficoltà sino
al IV e uno sviluppo di 650 metri. Lo spigolo Nord salito nel 1906 da Paolo Arici,
Emilio Brocherel e Ugo Croux, con una lunghezza di 700 metri e difficoltà
massime di IV+.
Nel febbraio 1963, Mario
Curnis e compagni compie la prima salita invernale dello spigolo nord. Proprio
in quei giorni, Mario mi ricorda, che Walter Bonatti era impegnato sulla Via
Cassin allo Punta Walker delle Grand Jorasses. Erano gli anni in cui
l’alpinismo invernale era in voga su tutto l’arco alpino. In Adamello, dopo
questa salita, Mario c’è tornato altre volte per percorrere, sempre in inverno,
altre vie sparse sulle cime dell’intero massiccio, dal Castellaccio, al Corno
di Gioià, alla Busazza, alla Presanella, al Tredenus, sino alla Punta Adami.
Sulla nord dell’Adamello ci torna ancora in inverno per salire lo spigolo
nord-ovest. Arrivato al rifugio si rende conto che una cordata lo precede di un
giorno. Attacca ugualmente e li raggiunge per mettersi in testa sino all’ultimo
tiro sotto la vetta. Mario a quel punto cede il comando all’altra cordata
esattamente all’alpinista bresciano Beltrami Francesco, che essendo il più
anziano del gruppo meritava di calcare la vetta per primo. Alla nord è
particolarmente legato non solo per queste avventure, ma anche per le numerose
scalate estive e una in particolare ama ricordare, quando in cordata con Renato
Casarotto hanno ripetuto lo spigolo dei Bergamaschi, che era stato da poco
salito da Cortinovis e Pulcini , il 3 luglio del 1966. Per Mario però l’alpinismo
invernale resta l’espressione più completa e impegnativa in cui uno scalatore
si possa mettere alla prova. Tante delle sue energie sono state investite nella
montagna d’inverno, anche per poi essere pronti per l’alta quota, le grandi
montagne del mondo e i giganti della terra, su cui ha collezionato prestigiose
ascensioni.
Negli anni “80 il versante
nord ovest è teatro di tre nuove vie su roccia, mentre sulla nord vera e
propria si deve attendere l’inverno 1989 quando Mutti apre in solitaria una via
di ghiaccio e misto "Hallo Woman of My Dreams", lo stesso Mutti in compagnia di Salvi
nel 1992 sale “Senza chieder permesso”,
che parzialmente ricalca la linea discesa con gli sci da Battistino Bonali, un
capitolo sconosciuto nella storia dello sci estremo. Nel 2007 queste due vie
vengono ripetute e se ne scopre la bellezza e l’impegno. In quell’inverno
nascono sulla nord cinque nuovi itinerari di ghiaccio e misto e la parete torna
ad essere oggetto delle attenzioni di molti alpinisti che riscoprono questo
terreno d’avventura dove Mario Curnis è stato uno dei pionieri assoluti. Mentre
chiacchieriamo di queste salite e delle più recenti vie aperte sulla parete
chiedo che impressione gli faccia essere lì 50 anni dopo: “Io devo
ringraziare sempre la montagna – dice
Mario - che mi ha fatto passare una bella vita e che mi ha aiutato nei momenti
brutti della vita. Non avrei mai pensato a 77 anni di essere ancora qui.”
Pubblicato su "OROBIE" - luglio 2014
1 commento:
Bellissimo racconto. Grazie!
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